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Serve subito una nuova relazione tra ospedale e territorio

L’epidemia di Coronavirus ha evidenziato la correttezza delle analisi poste da più parti, nazionali ed internazionali, sui punti deboli della sanità italiana, tra i quali un posto di rilievo spetta al rapporto ospedale-territorio che, lungi dall’avere realizzato l’integrazione auspicata da anni, necessita di un profondo ripensamento, come peraltro richiesto anche dall’Unione Europea.

L’ingegneria istituzionale del SSN ha, finora, concepito l’organizzazione del rapporto tra rete ospedaliera e territoriale attraverso un unico filo conduttore di programmazione, l’abbattimento della dotazione dei posti letto. Nel vuoto di politiche attive per le cure primarie sono evaporati in 10 anni oltre 70.000 posti letto, con conseguente crollo del rapporto con gli abitanti sotto la media europea, specie nelle regioni del Sud Italia che nemmeno raggiungono lo standard nazionale.

L’ospedale è diventato un luogo dove è difficile entrare, ma è ancora più difficile uscire in assenza di un chiaro percorso politico, organizzativo e culturale capace di realizzare un nuovo equilibrio ospedale-territorio, capace di ripensare  ruolo,  modello e organizzazione del lavoro delle strutture per acuti in un’ottica di sistema, cioè  insieme, non prima né dopo, con lo sviluppo di modelli consolidati di cure primarie, in una logica di rete clinica che offra diversi livelli di risposta a differenti setting di domande. Anche per costruire una prassi di vera collaborazione delle famiglie professionali, fondata su processi di misurazione e valutazione delle attività e dei loro risultati.

La crescente complessità dei pazienti richiede che, nel mondo nuovo del post COVID-19, il rapporto ospedale-territorio vada strutturato in una logica dipartimentale, di condivisione tra tempi e luoghi differenti di erogazione della prestazione sanitaria. Utilizzando anche percorsi comuni di diagnosi e cura con ruoli, funzioni e responsabilità differenziate, al fine di ottimizzare i risultati di salute e la gestione delle patologie (croniche e acute). Occorre, in sostanza, partire dal riconoscimento della necessità di sinergia tra medicina ospedaliera e medicina del territorio per un’ottimale gestione sanitaria e per rendere compatibili, in un’economia di scala, le peculiarità dell’approccio territoriale alle cure con quelle dell’ospedale, ovvero della medicina generale e di quella specialistica.

Facilitando anche la comunicazione ed il confronto professionale insieme alla presa in carico dei cittadini in un’ottica di continuità assistenziale che non disdegni le tecnologie informatiche. Un modello in cui ai professionisti coinvolti sia riconosciuto il ruolo di attori che lavorano nel e per il SSN, con profili giuridici diversi, ma non divaricati, diverse condizioni di lavoro e diversi ambiti di autonomia.

Per fare tesoro dell’esperienza pandemica da COVID-19 occorre rimediare al fallimento di una riorganizzazione decennale che ha trasferito risorse dagli ospedali ai territori senza un riscontro, in termina di efficienza ed efficacia degli esiti di salute, scaricandone le spese sui cittadini (meno posti letto, più liste di attesa, aspettative di vita e salute differenti da regione a regione) e sui medici, demotivati dalle pseudo riforme, in preda ad una evidente crisi d’identità professionale.

Come farlo? Sfruttando lo shock della pandemia per rilanciare innovazioni organizzative rimaste per anni nel cassetto e parole chiave quali sanità diffusa, domiciliarizzazione dei servizi, telemedicina, proattività della presa in carico, lean management, centralità dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) come alternativa al modello delle residenze sanitarie assistenziali (RSA), empowerment dei pazienti, forme d’integrazione dei servizi territoriali come le Case della Salute. Serve una riflessione sui modelli finora attuati e sulle “professionalità” piu’ adeguate a “gestire i percorsi assistenziali” anche per far fronte ad un utilizzo “improprio” dell’ospedale, conseguente alla sua “attrattività” rispetto ai presidi e servizi del territorio, ed ai correlati costi assistenziali.

Una mappa dei rapporti tra ospedale e territorio, funzionali al soddisfacimento dei bisogni degli assistiti, soprattutto degli anziani e dei portatori di malattie rare, di patologie croniche e multisistemiche, richiede che non si parli più di ospedale e territorio come ambiti di lavoro estranei l’uno all’altro, e magari in contrapposizione, ma di servizi e presidi per la salute della popolazione di riferimento con un grado diverso di complessità e di intensità assistenziale.

E si restituiscano all’ospedale le funzioni e le competenze proprie, liberandolo da compiti che appesantiscono la sua attività specifica sul versante della specializzazione e della ricerca, rendendo i presidi e le strutture del territorio, ed i suoi operatori, competenti ad affrontare, gestire e assolvere le specifiche richieste loro demandate. Si deve assicurare efficacia e sicurezza ai cosiddetti “ospedali di comunità” per l’assistenza residenziale ai pazienti con problematiche complesse, tali da richiedere la presenza di operatori sanitari per l’arco delle 24 ore.

Occorrono percorsi assistenziali definiti e “leggibili” che identifichino le modalità di intervento dei diversi “servizi” dell’Azienda Sanitaria, dai medici di medicina generale fino agli ospedali e viceversa, integrando le specifiche competenze e responsabilità e identificando di volta in volta il professionista responsabile del processo e/o delle sue tappe.

La stessa valorizzazione della prevenzione primaria, una pratica povera che non richiede grossi investimenti e rappresenta la modalità piu efficace per ridurre la richiesta di cure, rischia di ridursi a puro slogan se non si mette al centro del sistema la rimozione dei fattori di rischio e il cambiamento degli stili di vita, l’interdipendenza, sempre più elevata, fra ambienti di vita e di lavoro, in un modello organizzativo equilibrato con i luoghi della cura.

Un sistema integrato tra ciò che si fa in ospedale e ciò che si fa al di fuori dai suoi spazi, può avvalersi anche della grande disponibilità di tecnologie della comunicazione e dei big data. L’emergenza che stiamo vivendo ha concretamente mostrato come sia possibile fare un passo avanti per una reale diffusione di nuove tecnologie, in tutti i territori e in tutte le strutture della salute.

La telemedicina, largamente assente nelle nostre strutture pubbliche, consente un effettivo monitoraggio delle condizioni cliniche dei pazienti e un loro controllo da remoto. Oltre che per pazienti COVID, risulta strategica per tutti coloro, come gli anziani, affetti da pluripatologie, che non necessitano del ricovero (gravato dal rischio di infezioni ospedaliere), ma che non possono gestire da soli la propria condizione di salute perché privi di reti di cura, o perché vivono in zone poco servite o isolati nei territori montani o nelle aree interne, meno ricche di risorse.

Il nostro sistema sanitario ha retto perché i suoi professionisti si sono mostrati nella loro straordinarietà, ma è urgente un ripensamento profondo della sua struttura e del ruolo del suo capitale umano. In mancanza di scelte politiche ed organizzative coraggiose,il sistema tenderà a conservare lo status quo attraverso le modalità tipiche della burocrazia amministrata. Tutto andrà bene solo se niente sarà più come prima.

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