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C’è una nuova coesione sociale che spiega il successo di Trump e il fallimento della sinistra | L’analisi di Giuseppe Coco

Al di là degli effetti di Trump sul nostro sistema economico (che ci saranno e in gran parte saranno spiacevoli) sorprende la pervicacia con cui la stampa e la sinistra italiana continua ad interpretare il fenomeno come un fatto economico.

È vero che la base di Trump è negli Stati della rust belt, colpiti più duramente dalla globalizzazione e dal trasferimento della manifattura in blocco verso la Cina, ma come è stato notato più accuratamente la divisione è piuttosto per linee diverse, tra laureati e non e tra cittadini e rurali.

Si tratta in parte di divisioni antiche, è sempre stato così negli stati rurali, tradizionalmente repubblicani e grandi città quasi tutte da sempre democratiche. Ma la linea di confine si sposta a seconda di come sono percepiti valori ed interessi diversi da elettori al margine tra questi due mondi.

Che la questione economica pura e semplice non spieghi niente senza la percezione lo dimostra una lettura incrociata dei dati italiani e americani.

Secondo lo OECD Employment Outlook del settembre 2024, oltra ad andare a gonfie vele l’economia americana, i salari in USA hanno recuperato in termini reali il valore del 2019.

In Italia invece siamo ancora sotto del 7% e quasi del 10 rispetto al 2021 per effetto dell’inflazione.

Come si spiega che il governo italiano che sovrintende al calo di salari reali più pronunciato della storia è ancora popolare, mentre in USA vince lo sfidante più impresentabile nonostante tutto il potere d’acquisto dei salari sia stato recuperato, i tassi di crescita siano 3 o 4 volte più alti nell’ultimo anno e l’occupazione cresca a rotta di collo?

L’Amministrazione Biden inoltre ha speso somme di denaro mai viste prima per la reindustrializzazione della rust belt, un programma di incentivi e investimenti per 2.000 miliardi di dollari, quasi quanto il PIL italiano. Viene da dire: non è l’economia, stupido!

Insistere a sostenere che questo terremoto cominciato nel 2016 in America e più recentemente anche in Italia sia solo una questione economica è un riflesso di forze che non vogliono affrontare questioni più profonde che segnano il proprio rapporto colla maggioranza dell’elettorato, questioni valoriali e di rapporto con la realtà.

Nell’illusione che tutto si possa sempre comprare con più soldi (pubblici). In particolare, ci sono due divisioni fondamentali su cui la sinistra esce sistematicamente battuta perché la propria narrativa ha ceduto logicamente rispetto alla realtà, ma fa fatica ridefinirsi.

Da un lato c’è la questione dei diritti civili e della parità.

Un interessantissimo articolo dell’Economist di marzo metteva in evidenza che sta nascendo una grossa divisione inedita nell’elettorato giovane tra uomini e donne. Nell’elettorato maschile sta crescendo un risentimento rispetto ad una narrativa prevalente nei media e nelle istituzioni educative che criminalizza sistematicamente la mascolinità e continua ad enfatizzare svantaggi e compensazioni, proprio mentre emerge un chiaro svantaggio maschile nell’istruzione.

Inutile entrare nel merito, la cosa interessante è notare come questo abbia generato una netta divisione tra giovani uomini e donne nelle preferenze politiche in particolare su temi di diritti civili.

Una divisione che non c’era nelle generazioni precedenti si noti, anzi. I ‘giovani’ maschi delle generazioni precedenti erano altrettanto progressisti. Che dietro al successo di Trump ci siano i maschi bianchi spesso giovani, i nuovi mostri, non ci sono dubbi.

La seconda divisione è quella che riguarda l’immigrazione (e l’identità). Dietro la contrarietà all’immigrazione ci sono diversi fatti, alcuni economici, altri valoriali. I fatti economici hanno a che fare con la pressione sui salari dei meno abbienti che l’immigrazione causa, e con le spese di welfare che non migliorano le nostre prospettive di finanza pubblica. Solo una immigrazione più qualificata e che paga sostanziali imposte aiuta davvero la finanza pubblica, non certo quella attuale.

Per quanto riguarda invece le questioni identitarie, la visione secondo cui tutti gli uomini devono essere liberi di muoversi attraverso confini, e una volta arrivati sulle nostre coste godere degli stessi diritti economici dei cittadini a prescindere, appartiene davvero solo a una minoranza molto istruita con una ideologia universalistica molto estrema. Ed inoltre è insostenibile esattamente come il suo opposto, ovvero che possiamo fare a meno dell’immigrazione.

In un interessante libro di alcuni anni prima della Brexit un giornalista inglese, David Goodhart, spiegò come mai il proletariato e la media borghesia inglese di provincia, i più cosmopoliti della storia, si erano svegliati autarchici negli anni 2000.

Il timore diffuso era quello di una diluizione e scomparsa dell’identità britannica (o meglio inglese) a seguito delle diverse ondate migratorie, come è successo in effetti a Londra.

Il titolo era ‘The road to somewhere’, simbolicamente indicando che la gente voleva ancora essere libera di determinare il proprio destino collettivo di nazione, conservando la propria identità.

Gente di un somewhere un posto preciso, l’Inghilterra, in opposizione a coloro che potevano essere indistintamente cittadini di anywhere, qualunque posto.

L’élite internazionale che governa la finanza, l’accademia e occupa le istituzioni sovranazionali, non a caso le più odiate.

Si può ironizzare quanto si vuole sulla identità culturale di certi assessori e anche ministri leghisti, ma la realtà è che la coesione sociale è fatta di appartenenza alle comunità, non alla razza umana.

Queste istanze vanno comprese e sull’immigrazione illegale è necessario immaginare una strategia di contenimento realistica, come fece Minniti, non a caso diventato nel tempo la bestia nera di alcuni ambienti del PD stesso, non abbandonarsi a una retorica dell’accoglienza generalizzata, comoda e perdente.

Ma irrinunciabile nelle cene del sabato sera tra amici colti e benestanti.  

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