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[L’analisi] 7 milioni di donne non lavorano. Il record italiano che danneggia l’economia

Le donne italiane riescono a lavorare poco, sono poco assistite e nonostante i recenti interventi ancora non riescono a lasciare la cura della famiglia. È quanto emerge da “Le isole delle donne inattive”, il rapporto di Randstad Research, il centro di ricerca sul futuro del lavoro, che ha tracciato un profilo delle donne inattive, analizzandone le cause e immaginando il futuro possibile. In Italia – spiega la ricerca – le donne inattive tra i 30 e i 69 anni sono oltre 7 milioni.

Un numero decisamente troppo alto, se si considera che rappresentano il 43% delle donne italiane in questa fascia d’età, mentre nella media europea le donne che non lavorano né sono in cerca di occupazione sono il 32%, in Germania il 24% e in Svezia appena il 19%. Troppe se rapportate al numero di poco più di 20 milioni di occupati.

E un numero notevole sia a livello sociale che economico: la maternità comporta forti conseguenze sulla scelta di rimanere o uscire dal lavoro, ma l’inattività di moltissime donne italiane si prolunga ben oltre il periodo in cui scelgono di concentrarsi sulla famiglia, per l’assenza di supporti alternativi durante la carriera, con poche possibilità di rientro. Per le donne italiane è difficile partecipare al mercato del lavoro, ma ancora più difficile rientrare dopo uno stop.

Un fenomeno apparentemente immutabile, se si considera che a livello aggregato il tasso di attività è rimasto fermo dal 1990 ad oggi, che colpisce soprattutto il Sud e le isole, dove più di una donna su due (il 58%) è inattiva, mentre al Nord sono tre su dieci. Nella fascia di età 30-69 anni le donne inattive sono in stragrande maggioranza casalinghe a tempo pieno (4,5 milioni), per scelta o “obbligate”, come conseguenza di scoraggiamento per le barriere all’ingresso e al reingresso nel mercato del lavoro.

E poi pensionate (2,5 milioni, tra pensioni di anzianità, sociali e di invalidità), con una prospettiva della terza età più incerta degli uomini, a causa di pensioni inferiori, raggiunte in età più giovane. Il tasso di inattività femminile è fortemente legato all’età: dal 70,6% delle donne attive tra i 35 e i 44 anni si scende al 47,4% tra i 55 e i 64 anni.

“La fragilità del nostro ‘capitale sociale’ in termini di parità di genere si riflette nel mancato utilizzo del potenziale femminile per una società più produttiva e integrata – spiega Daniele Fano, Coordinatore del Comitato Scientifico Randstad Research -.

Secondo i dati forniti dal MIUR Le donne hanno risultati superiori agli uomini negli studi secondari e post-secondari ma poi non rilanciano la loro professionalità. Il PNRR contiene provvedimenti importanti, ma per invertire questa tendenza occorrono moltiplicatori degli interventi. Per favorire la partecipazione al lavoro delle troppe donne inattive, l’Italia deve investire nella creazione di asili nido e rafforzare congedi parentali, puntare sulla formazione continua e politiche attive che sviluppino il capitale sociale delle donne, agire sulla parità salariale per rendere il lavoro femminile più attrattivo e, insieme, insegnare il ‘rispetto di genere’ per ridurre gli stereotipi nelle generazioni future”. 

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