Tutti o quasi i produttori mondiali di auto, a esclusione forse del segmento super lusso, attraversano un momento di profonda crisi.
Non solo nelle auto elettriche, per i costi troppo alti, le prestazioni ancora in evoluzione e le carenze delle reti di ricarica.
Stentano anche i modelli tradizionali a combustione interna.
La capacità produttiva supera la domanda, con rischi di chiusura di fabbriche, mentre tutti i governi nazionali vorrebbero, al contrario, più produzione e occupazione entro i loro confini.
I buoni numeri post Covid, dovuti al precedente blocco nelle vendite e nelle forniture di componenti, erano un fuoco di paglia; oggi le immatricolazioni calano a doppia cifra.
La domanda chiave è se sia una normale crisi ciclica, come se ne sono viste altre, o se sia in atto qualcosa di più profondo e strutturale.
Il ventesimo è stato il secolo dell’automobile, almeno in occidente.
Il progresso industriale e tecnologico post-bellico, la ricostruzione di infrastrutture stradali adatte, la crescita economica generale, hanno favorito l’enorme sviluppo dell’auto.
Fondamentali sono stati anche i fattori sociali e demografici.
Da giocattolo per pochi ricchi a inizio ‘900, l’auto è diventata sogno accessibile per molti, simbolo di riscatto e benessere nel dopoguerra, status symbol per tutti negli anni del boom e dagli anni ’70 sino all’inizio del 21° secolo.
In questo contesto sociale, modelli e marchi quasi scomparsi, come l’Alfasud, presentata nel 1971, vendevano oltre 1 milione di modelli; in Europa la Volkswagen Golf, uscita nel 1974, superava i 35 milioni.
Numeri che fanno impallidire quelli odierni, nonostante il mondo sia più globale e ricco.
Com’è possibile?
Influisce molto il fattore demografico.
Tra gli anni ‘70 e ‘80 compivano i 18-30 anni i nati nel periodo del baby boom.
Patente e auto erano un rito di passaggio, di emancipazione per studenti o lavoratori; il mezzo di trasporto un simbolo di libertà, prima ancora di strumento di lavoro e segno di benessere.
La curva della popolazione vede oggi sempre più anziani e a 60 e 70 anni decrescono propensione e prospettive di acquistare o cambiare l’auto, se non indispensabile.
I numeri sulle fasce d’età, sui relativi consumi e investimenti, non sono una sorpresa per i governi e le grandi industrie; i ventenni di oggi sono di meno e meno solide le loro prospettive di reddito.
Perché stupirsi se calano gli acquisti di auto?
Ancora, sogni e libertà dipendono sempre meno dall’automobile.
Con un low-cost da 50 euro si vola in un’ora a Barcellona; in auto costa almeno 10 volte tanto o comunque più del doppio viaggiando in quattro.
Acquistare un’auto media, che dura 10 anni, tra bolli, assicurazioni e manutenzione, ha costi – fissi – di almeno 4.000 euro l’anno; è più conveniente volare a New York.
La crescita in Europa è ben diversa da 40 anni fa.
Dalle tasse sui carburanti, ai vincoli al traffico nelle grandi città, tutto fa usare sempre meno automobili.
Bisognerebbe vendere all’estero, dove si cresce.
Ma in Africa il reddito medio è ancora troppo basso per acquistare auto moderne (infatti spopola l’usato), non ci sono strade adeguate e le lunghe distanze sono spesso troppo lunghe.
Lo stesso in India, dove l’industria auto cresce, ma fa da sola.
In Sudamerica il Brasile, per un po’ è stato il secondo mercato per Fiat.
Ma ora dove c’è crescita vanno anche i cinesi, a prezzi più bassi.
Ancora: Fiat aveva impianti nella vecchia Urss, dov’era era arrivata sin dagli anni ’30 e dove negli anni ‘60 con le politiche estere di Fanfani (e Valletta) la 124 marchiata Lada divenne l’auto più amata dai russi; polacchi, jugoslavi e turchi seguivano l’Urss.
Queste erano le condizioni in cui crescevano l’industria dell’auto e la connessa meccanica italiana.
Chi conosce la storia, può capire gli scenari e i numeri.
Le strategie e le prospettive del settore ne sono la conseguenza.
Chi alza solo la voce e pretende soluzioni, senza conoscenze né argomenti validi, perde tempo.