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Lo Stato torni imprenditore nei settori strategici, ma non entri nel capitale delle piccole e medie imprese

Spegnere il motore dell’economia produttiva ha certamente contribuito a contenere la crisi sanitaria, ma ha procurato danni ad alcune categorie di lavoratori e alla quasi totalità delle imprese.

E’ quindi giusto che ora gli uni e gli altri siano compensati dalla collettività.

Ciò detto, occorre ora tirare una linea di confine tra risarcimenti e interventi di politica industriale. Magari con l’auspicio, a corollario, che un approccio troppo ecumenico sui risarcimenti non esaurisca tutte le risorse reperite.

Nei prossimi mesi sarà inevitabile fare i conti con gli antichi problemi irrisolti – che oggi sono emersi come scogli da una marea in ritirata – e con i (rituali) conflitti tra i portatori d’interesse. Partendo però da un’evidenza: le risorse nel cassetto non possono accontentare tutti, perciò spetta al governo ponderare, scegliere e, soprattutto, resistere.

Resistere ai tentativi di quanti vorrebbero far profitto con le risorse disponibili per i risarcimenti, e resistere agli approcci opportunistici sulle misure straordinarie di politica industriale di cui il Paese deve dotarsi.

Perchè la pericolosa tentazione di sfruttare la riscoperta dello Stato per dargli assoluta centralità nell’economia produttiva c’è ed è forte.

E perciò, mentre qualcuno parla apertamente di ridare vita ad nuova IRI, altri si oppongono chiedendo a gran voce di non rituffarsi negli antichi errori dello Stato-imprenditore.

Anche se tra questi emerge, in filigrana, il tentativo di risolvere l’endemica sottocapitalizzazione delle piccole e medie imprese italiane con nuovi debiti a carico della collettività.

Così, per cercare di orientarsi in questo scenario, va riconosciuto che vi sono settori a ridotta sistemicità nei quali lo Stato non riesce a generare valore, ma solo debiti infruttuosi lasciati in eredità alle generazioni future.

In questi contesti, lo Stato ha perciò l’obbligo di lasciare il campo, per tutelare la salute dei propri bilanci e per dare maggiori spazi alla libera iniziativa.

Ma, di contro, vi sono contesti in cui può e deve svolgere una funzione “imprenditoriale”.

Nei settori strategici nazionali, infatti, è auspicabile che lo Stato svolga la funzione di una nave cargo per le imprese private, e cioè che orienti gli investimenti delle filiere produttive sui mercati internazionali.

Impegnando la forza dei suoi capitali pazienti, del suo peso sugli scenari internazionali “istituzionali” e della sua capacità di formare saperi e conoscenze.

Ricorrere all’immagine di una nuova IRI, inadeguata e spendacciona per demonizzare questa sua prerogativa – che, come detto, è giusto vederla come un suo obbligo –  sarebbe un errore imperdonabile, di cui alla lunga ne pagherebbe le conseguenze lo Stato e, di conseguenza, anche l’industria privata.

Perché lo abbiamo  già sperimentato con qualche dissennata privatizzazione e perciò dovremmo averlo imparato: nei settori strategici –  dalla difesa all’energia, dall’istruzione alle telecomunicazione e alla sanità territoriale – lo Stato non può delegare ai privati le scelte ad elevato impatto sistemico.

E di esempi in cui l’interesse privato non coincide con quello collettivo ne abbiamo avuti a sufficienza.

Questo significa demonizzare l’iniziativa privata? Certamente no, ma utile privato e interesse generale non debbono necessariamente andare “a braccetto”. Ipotizzarlo sarebbe una mistificazione a danno di entrambi.

E come tutte le mistificazioni, soprattutto se caratterizzate da forti radici ideologiche, saremmo prima o poi chiamati a pagarle tutti. E anche questa è una lezione che abbiamo già imparato.

Ciò detto, in queste curve della storia, lo Stato ha comunque l’obbligo di contribuire alla ripartenza delle imprese, soprattutto quelle sane e capaci di guardare lontano (e non già di quelle che da tempo hanno strategie e conti disordinati).

E per riuscirvi ogni azione di finanza straordinaria dev’essere messa in campo: dagli strumenti di garanzia per i capitali investiti, ai fondi specializzati per la innovazione dei modelli di consumo e dei processi produttivi, meglio se in collaborazione con il sistema universitario.

Tutto ciò senza però lasciarsi tentare da interventi nel capitale di rischio dell’industria privata. Specie se lo Stato non può, anche in prospettiva, trarne alcun beneficio che non sia un generico, e spesso solo teorico, incremento del gettito fiscale.

In conclusione, l’auspicio è che il Governo resista alle tentazioni proprie e a quelle dei gruppi di interesse che sono in campo. Deve farlo per rifondare la fiducia nell’intrapresa, ma soprattutto per testimoniare di non perdere mai la bussola dell’interesse generale: dei lavoratori, delle imprese e quindi di tutti i membri della comunità nazionale.

In nome di un patto di solidarietà, di un destino condiviso, in una parola di un senso dello Stato che è bene tener vivo nella profonda consapevolezza di ciascuno.

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