Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

Ecco come (davvero) aiutare le aziende. Il decalogo per mettere fine alla via crucis degli imprenditori. Impariamo da Pasqualino Monti

“Se non cambia il codice degli appalti non riusciremo a spendere nemmeno metà dei fondi che ci mette a disposizione l’Europa. Questo è poco ma sicuro. Dobbiamo usare il virus come uno stimolo per cambiare, non come un presto per restare uguali a noi stessi. E ovviamente inefficienti”.

Così parlò Pasqualino Monti, presidente dell’autorità portuale di Palermo, grande sostenitore di un decalogo per cambiare le regole del gioco. Ho ancora in mente le parole di fuoco, appassionate che Monti dedicò alla difficoltà di portare a termine una gara, a Palermo, mentre presentava di fronte a ministri e sindaci il piano da mille e una notte con cui era riuscito a riaccendere i porti della Sicilia. Il suo grido non era quello di un perdente che cercava alibi, ma di un vincitore che si dannava per portare a casa risultati in tempi ancora migliori. 

Ciò che rende interessante e utile la sua esperienza, ai miei occhi, è proprio questo: avendo dovuto portare a termine decine di appalti, Monti è diventato – lucidamente – il grande nemico del codice degli appalti. Non per cattiveria, ma per esperienza. Ed è per questo che  la sua carriera rende credibile il noioso in cui porta avanti la sua analisi.

Pasqualino Monti è nato nel 1974, a Ischia. È un figlio del mare, perché suo padre faceva il Comandante sulle navi. La madre veniva da una famiglia di  albergatori. Monti cresce a Civitavecchia dove si trasferisce suo padre, dopo aver vinto un concorso nelle ferrovie che lo fa diventare comandante dei traghetti postali. Arriva a Civitavecchia a cinque anni, studia nella cittadina portuale, si laurea in scienze politiche a Roma.

Prende uno master alla Mba, studiando in college ad Altavilla vicentina. Poi si specializza in management alla “Cuoa”, la scuola di cui era direttore l’ex presidente di Confindustria, Innocenzo Cipolletta. Finiti gli studi entra come consulente in una società connessa alla finanziaria laziale di sviluppo, e torna a Civitavecchia, un mondo che conosce bene. A soli 29 anni viene designato CFO, dirigente finanziario dell’Autorità portuale, primo gradino di una gerarchia che scala in pochi anni.

C’è da finanziare l’ammodernamento del porto, e Monti diventa direttore amministrativo in una fase cruciale finché dopo quattro anni – nel 2010, dopo essersi guadagnato la stima di Gianni Letta – non viene nominato presidente dell’Autorità dal ministro Matteoli. È da numero uno che Monti fa vedere la sua tempra. Basti pensare che – per quanto sembri incredibile – fino ad allora le crociere non arrivavano nella Capitale.

Prima mossa: introdurre una nuova denominazione: “Porti di Roma”. Seconda mossa: attrarre (cosa che gli riesce) le grandi compagnie. Prime reazioni? Protestano a Civitavecchia (non a Roma) per il nuovo nome, lesivo – secondo questi geni – del prestigio locale. Ma ovviamente è la mossa giusta: Roma è un magnete, un simbolo,  e la trasformazione in un porto crocieristico riesce in breve tempo.

Poi Monti si rimbocca le maniche: appalta investimenti per un miliardo e mezzo, riesce a costruire una linea ferroviaria dedicata da Melfi-Civitavecchia che nel 2014 trasforma il porto nell’Hub naturale della Fiat. Terzo round, recuperare la centralità della capitale, con uno slogan che lascia qualcuno di sasso: “Il porto? Deve fare come ai tempi della Roma antica. Accogliere tutti i traghetti e tutte le merci per tutto il mediterraneo”. Anche perché fino ad allora la Capitale era servita da Livorno, da Ravenna da Genova e Napoli è ancora oggi (con suo grande rammarico) “ancora arriva merce con i camion da Rotterdam”.

L’ultimo tassello è la frutta, che prima non sbarcava nel Lazio. Funziona così bene che oggi Civitavecchia è diventato il più grande “fruit terminal” d’Italia. Quando Monti stipula un accordo anche con la Thyssen (rifornimento diretto di Ferocromo, via treno, per Terni) il porto un tempo di serie B è diventato così appetibile che – siamo pur sempre in Italia – lo mandano via. A preparare il terreno sono venti denunce che gli arrivano per tutte le opere e i bandi che ha realizzato. La procura indaga, per l’obbligo dell’azione penale, e – procedimento dopo procedimento – Monti viene prosciolto da tutto nella fase istruttoria, senza che nulla mai arrivi a processo.

Su questi procedimenti, tuttavia, scrive un libro. La più bella, la perla, resta questa: una accusa di “falso ideologico” sulla darsena dei traghetti. Per aver fatto cosa? Sembra incredibile ma è accaduto veramente: “per aver finito l’opera con sei mesi di anticipo”. Solo in un paese al contrario si può essere denunciati per aver finito prima del tempo invece che dopo, e Monti oggi ci scherza su: “Invece che darmi una medaglia, ho dovuto passare mesi a difendermi e a giustificarmi”. Anche in questo caso i magistrati si rendono conto che non c’è dolo, ma le denunce creano il clima per sostituire il presidente dell’Autorità e scegliere un nome più tranquillizzante, più vicino agli equilibri politici del territorio. 

Nell’agosto del 2016, ancora in era renziana, Pasqualino non piace al nuovo potere. È merito di Graziano Delrio averlo salvato da una sicura giubilazione: ma la nuova destinazione è una autorità molto decaduta. Quando si mette in viaggio per La Sicilia, l’ex “enfant prodige” è indicato come destinatario di un “Trasferimento punitivo”. Il motivo è evidente: Palermo nel 2016 è un porto che casca a pezzi. Sulle banchine ci sono i cavalli che urinano per strada, un paio di moli sono sotto sequestro. I camion corrono per strade incerte rischiando di arrotare i (pochi) turisti. Insomma uno scenario di Infrastrutture degradate e rovina industriale sulla cui skyline si staglia un meraviglioso simbolo di paradosso italiano. Due immense gru – pagate 70 miliardi di lire – che oltre a ingombrare le banchine si segnalano per una meravigliosa peculiarità, che Monti trasforma in battuta nel suo discorso sit Palermo: “Non hanno mai scaricato nemmeno una nave. Settanta miliardi di costo, per non aver mai sollevato nemmanco un grammo”.

Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, e invece Monti si mette ad appaltare. Rimette a bando la stazione marittima, demolisce i silos, smantella il simbolo del grande nulla, le titaniche e inutili  gru, crea il terminal aliscafi per le isole. La ciliegina sulla torta è il drenaggio di un prezioso bacino da 150 tonnellate per opere in acqua, intasato dal 2012, e oggi bonificato, dragato e riconsegnato a Fincantieri. Ero a Palermo il giorno in cui i filmati con queste realizzazioni tennero a battesimo l’ultima impresa di Monti: la firma di una convenzione Comune-Autoritá-Regione e compagnie per riportare le navi da crociera in Sicilia.

Già, perché mentre in città si faceva tutto questo, fuori da Palermo si sbloccava il relitto di Termini Imerese (abbandonato precipitosamente dalla Fiat con la “fuga” dall’impianto). A Trapani – in otto mesi – prendeva corpo il terminal per le Egadi. E a Porto Empedocle nasceva un nuovo scalo – Stazione marittima ristrutturata – per portare i turisti nella valle dei templi e a visitare la casa del papà di Montalbano, Andrea Camilleri. Bisognerebbe immaginare la soddisfazione sulla  faccia di Monti quando dal ponte della nave indicava il panorama ai signori delle crociere – Carnival e Msc – che con questi ami stava attirando nell’isola a sostenere investimenti ingenti. 

Tuttavia il motivo per cui racconto tutto questo è solo per far capire il discorso di  Monti sugli appalti, che nell’Italia del Covid a mio parere diventa imprescindibile.

Dice infatti l’uomo degli appalti impossibili: “Io non ho dubbi, se non cambiamo le regole l’Italia resta ferma al palo”. E se gli chiedo di dimostrarmi perché, mi sfida: “Facciamo un gioco: in questo colloquio ricostruirò per lei il percorso che serve per realizzare una delle opere della mia carriera”. Ed eccoci a parlare della nuova stazione marittima di Palermo.  Monti ha appena steso il suo  manifesto in sei punti “per la semplificazione” degli appalti e dice: “Se non ora quando? Bisogna ripartire con una proposta choc per ricostruire l’Italia dopo il virus”.

Il nesso – che non tutti vedono – tra la Pandemia e la difficoltà di realizzare le opere, secondo Monti è questo: “Era già difficile appaltare opere pubbliche prima del Corona. Temo che oggi tutti noi rischiamo di ritrovarci bloccati”. Se gli chiedi quale relazione ci sia, il presidente dell’Autorità spiega: “È semplice: dovremo fare più cose in meno tempo. E poi dovremo smaltire, anche, tutto il lavoro arretrato dei cantieri  fermi in questi mesi”.

Domanda: “Ci sono le condizioni per farlo con questa normativa?”. Risposta urticante: “Dipende. La politica, non mi interessa come e chi – dice Monti – in questi anni ha trasmesso l’idea che ogni appalto nascondesse necessariamente tangenti”. E questo ha prodotto nel codice, nelle leggi e nell’opinione pubblica un paradosso: “È diventato motivo di orgoglio presumere che chi appalta sia necessariamente un ‘potenziale ladro’”.

Monti vede in questi teorema due conseguenze perverse: “L’idea è 1) che complicare gli iter fosse una manifestazione di virtù, 2) che complicando si abbatta la corruzione”. E quando lo riassume conclude con una risata: “Sono false entrambe le tesi. È vero esattamente il contarlo. E proverò a dimostrarlo”. E qui si torna alla stazione marittima: “Il dato di fatto, con le attuali regole è questo: da quando viene pensata a quando viene realizzata, per ogni opera pubblica, passano da sette a dieci anni. Ma può essere anche di più: un’eternità”.

Ed ecco come si arriva a questa tempistica del tutto implausibile: “Devi compiere una vera e propria traversata del deserto, passando per tre tappe ben definite: 1) fase progettuale 2) autorizzativa 3) realizzativa”. E qui sorge il primo problema. “Queste tre fasi hanno gradi di complessità tali che è impossibile tagliare i tempi o anche solo limitarli”. Per dimostrarlo proviamo a partire  da zero. “Devo fare una nuova stazione marittima coperta, altrimenti gli armatori non vengono. Prima domanda: quanto ci metto a realizzarla?”. Non è possibile dare una risposta chiara: “Qualunque data in Italia va indicata con un punto interrogativo perché nessuno può prevedere il percorso che lo attende”.

Cominciamo dalla prima fase. Monti Sorride: “Presento un primo progetto al Comune, ovvio. Ma poi anche alla Soprintendenza. Nel farlo, però, devo interloquire con due diverse soprintendenze, ognuna interessata da competenze diverse”. Ma a questo problema se ne aggiunge subito un altro. “Tutte queste entità – spiega Monti – hanno ognuna tempi autonomi e non determinabili”.

Quando si passa al progetto definitivo servono altre autorizzazioni, di tutti i diversi enti e soggetti interessati”. Quanti? Solo a fare la lista vengono i brividi: “Ho fatto il conto perché ogni volta che ci passo non ci credo: ventitré diverse entità amministrative. Cito solo a memoria. Di nuovo -ovviamente – si passa per il Comune. Poi di nuovo per la Sovrintendenza paesaggistica, ma anche per quella archeologica, che ovviamente non si parlano e sono realtà separate. Poi gli artificieri. Quindi il consiglio superiore dei lavori pubblici. Poi il Genio civile, poi la città metropolitana. E poi i vigili del fuoco, la capitaneria di porto, la Regione, l’assessorato all’ambiente, ma anche il ministero dell’ambiente, che operano tutti in modo autonomo e non coordinato”. 

Mentre Monti mi fa questo sterminato appello ascolto incredulo. Lui si diverte a vedermi scosso: “Ti devi fare il segno della croce quando entri, e il vero problema è: nessuno sa quando ne esci”. Ed ecco il motivo: “Non ci sono mai valutazioni in automatico. Ad esempio quando passi al ministero delle finanze, ti trovi in un labirinto burocratico dove devi seguire la tua pratica da un ufficio all’altro”.

Ma a  rallentare la catena non ci sono solo questi 23 passaggi obbligati: “il più grande ostacolo – spiega Monti – è la mancanza di due paroline magiche coordinate da un trattino: ‘Silenzio-assenso’”. Quello che dovrebbe essere la regola, in un iter così complesso, non è nemmeno l’eccezione: ed è per questo motivo che non si può procedere al passo successivo finché non ti rispondono”.

Insomma, è come un gioco dell’oca in cui si resta fermi perché nessuno tira i dadi. “Non puoi procedere alla fase successiva finché ogni singola entità interessata non evade la tua pratica, con i suoi tempi”. Ovviamente nessuno contesta che gli enti valutino il progetto: “Ma – si accalora Monti – questo dovrebbe accadere in un tempo chiuso. Altrimenti ogni passaggio diventa un moltiplicatore che dilata la tempistica!”. Il che è incontestabile.

La conseguenza? “Una follia. Ti metti lì a pietire, a chiedere, come se la stazione, o il ponte, o l’edificio scolastico, non fossero opere di pubblica utilità, ma un tuo problema personale”. Così bisogna aguzzare l’ingegno. La prima contromossa di Monti è “Una conferenza di servizi ‘chiusa’. Se tu ente interessato mi fai le osservazioni negative, è un tuo diritto, ma devi farle contestualmente”. Anche per evitare un rischio paradossale: “Che un ente ti chieda una modifica, seguendo la sua logica, e un altro ne chieda una opposta, seguendo la propria. Capita anche questo. I tempi non sono  solo un ostacolo interno, ma anche esterno: se io – spiega il presidente dell’autorità di Palermo – per alleviare le casse pubbliche finanzio questa benedetta stazione con 10 milioni di euro messi fai privati, devo garantire loro un tempo limite”. Altrimenti i privati non finanziano: “Ovvio: nessuno può usare i fondi di una azienda per investimenti non programmabili!”.

Ed ecco la nuova contromossa: “Imporre un tempo limite del tipo: in 40 giorni io voglio tutto: rilievi e autorizzazioni”. Ecco dove bisogna semplificare: “Il Comune non deve tornare in consiglio, e votare, per ogni minima variante al piano. Tanto il sindaco è già responsabile dell’opera! L’ha approvata, nella sua cornice, con ogni garanzia democratica, in un voto consiliare. Ma se una banchina diventa più lunga di 2 metri per qualsiasi variante legata al processo decisionale, si assume la responsabilità lui, o al massimo la giunta. Non si può tornare a votare”. 

Non meno complesso è provare a capire come si possono tagliare i tempi anche nella Seconda fase: “Secondo me il progetto definitivo, dopo tutto l’iter che abbiamo detto, è semplicemente il progetto Autorizzato.  Ovvero il  computo di tutto quel che costa dopo le eventuali varianti”. La fase esecutiva, poi, prevede un nuovo giro: “Giusto farlo. Ma proprio qui – sottolinea Monti – basterebbe il silenzio-assenso. C’è qualcosa che non ti convince? Parla ora o taci per sempre, come nei matrimoni”. 

Il problema è che noi immaginiamo che il nostro appalto sia pronto e invece non finisce qui. Monti Sorride amaro: “Magari! Oggi quel  progetto, dopo l’approvazione di tutti gli enti, deve essere vagliato da un ‘verificatore’ esterno”. Se provi a chiedere quanto ci vuole a superare questa fase di nuovo si va nell’incertezza: “Bella domanda. Oggi  non ci sono limiti. Se hai un verificatore pignolo, arrivi come nulla ad un anno. Esiste un apposito albo dei verificatori, ovviamente. E onorari non irrilevanti”.

Si potrebbe pensare che questa almeno sia una garanzia ma non sempre è così: “Faccio un esempio: se il verificatore è collegato a un progettista e si ritrova tra le mani il progetto di un concorrente?”. E c’è poi il capitolo dei costi: “Un verificatore guadagna, per un progetto da 20 milioni anche 100mila euro. Ma come lo si sceglie? Per gara. Con l’80% di sconto medio. Immagini che con una media di ventimila euro si verifica un progetto da 20 milioni! Solo per questo vanno via altri tre mesi. Dopo che hai il placet del verificatore c’è la gara per l’opera”.

Immaginate un sospiro di sollievo? “Al contrario. Qui iniziano i guai”. Infatti per la nostra stazione bisogna mandare in gazzetta il bando, aspettare altri 30-40 giorni, poi arrivano le offerte, poi bisogna dare altri 30 giorni alle imprese. E qui si arriva alle cosiddette ‘migliorie tecniche’. Parola magica e terribile nel rompicapo del codice, che Monti spiega così: “Io appaltatore, a quel costo, ti faccio anche il marciapiede. Poi ti dico il tempo che occorre, e poi ti indico il prezzo finale”.

Finalmente, direte voi lettori, si  aggiudica il bando. E invece no: “Di nuovo c’è il problema dei tempi: occorre nominare la commissione, e le parti in seduta pubblica per l’aspetto amministrativo. Poi convocarle in seduta pubblica per parte tecnica, e, sempre in seduta pubblica, per la parte economica”. Anche in questo caso non esistono vincoli temporali: “Se la commissione pensa che ci siano venti offerte e serva un anno – sospira Monti – passa un altro anno”. 

Che lui cerca di comprimere così, accompagnando questo racconto con un gesto della mano e un sorriso amaro: “Io li chiudo a chiave in una stanza, provo a fargli capire quanto sia importante il fattore tempo e poi gli dico: ‘Finché non avete finito non uscite’”. Un rischio, anche dal punto di vista legale.

Ed ecco l’ultimo tema: “Sommersi sotto questa montagna di carte dimentichiamo la cosa più importante. Io, e tutti gli appaltatori, rappresentiamo la Stato. Per me questo significa dare lavoro, occupazione. E fare le cose”. Uno pensa: per fortuna c’è l’Anac che ti aiuta: “Ad esser sinceri no”. Ed ecco un esempio: “Nel 2016 il codice prevedeva che l’elenco dei commissari di gara ce lo avrebbe dato l’Anac. Ma bisogna usare il condizionale perché dopo quattro anni l’elenco non è mai arrivato”.

Silenzio, sorriso: “A quell’albo si stavano iscrivendo tutti i professionisti italiani. Anche l’Anac ha capito che non era possibile controllarli, si è arresa”. Allora ti chiedi: perché fare una norma così, allora? “Chi l’ha scritta, evidentemente – si arrabbia Monti – non ha mai realizzato un’opera in vita sua”.

Allora chiedi come  scelgono i commissari, visto che l’albo dei commissari da cui sceglierli non c’è? Monti allarga le braccia: “Devi scrivere all’Università, al ministero, o agli enti, ai provveditorati che hanno professionalità adatte”. E poi? “Aspettare. Se chiamo il provveditore degli studi di Palermo, mi serve l’autorizzazione al capo gabinetto”.

Chi scrive, come forse voi, sta svenendo. Monti Sorride: “Se raccontiamo tutte le follie di una gara non basta un libro. Per cui provo a sintetizzare”. 
Il grande alibi che giustifica questo castello, in teoria, sarebbe quello della legalità. Ma Monti non è d’accordo: “Se chi bandisce la gara vuole imbrogliare purtroppo può, come e più di prima”.

Ed ecco la soluzione proposta: “L’autorità che appalta deve chiamare sulla sua responsabilità un professionista, e poi risponde – come faccio io – del fatto che non ci siano profili di incompabilità o conflitti di interessi”. Il bello è che con tutti questi ping pong la gara per la nostra stazione non è ancora finita: “Servirà almeno un altro anno. Otto mesi se vai a piedi a Lourdes”. Incredibile ma vero: “E capisce che si stupiscono se si si perdono fondi europei? Capisce cosa ci attende con i Recovery?”.

Soluzione? “Per un’altra gara – sul dragaggio – mi sono messo a tampinare i commissari come un trapano. Grazie alla professionalità di tutti, in cinque giorni, abbiamo chiuso”. Reazioni divertenti: “Una dirigente delle autorità, bravissima, dopo una gara sul terminal aliscafi fatta così mi disse: ‘Io prima pensavo che lei fosse un pazzo…’. Pausa. ‘Adesso ne sono certa. Però è una follia a fin di bene’.

Finita la gara, direte voi  l’opera finalmente parte. E invece no: “Sehhhhh… Per molti quel punto è solo l’inizio del calvario. Su Tar e consiglio di Stato si abbatte una pioggia di ricorsi dei secondi, dei terzi arrivati, e degli esclusi”. E il ricorso ti ferma: “Se non trovi un magistrato amministrativo illuminato hai chiuso”. Anche sui ricorsi, ovviamente, niente tempi certi: “Ovviamente no. Ma qui servirebbe l’obbligo”. Ecco la gabola. In teoria dovrebbero pronunciarsi entro un mese. “Ma – racconta Monti – basta una sola osservazione, al 29esimo giorno e tutto si rimanda ad altri 30. E poi altri 30 giorni. Poi ti spari”. È questo che fa arrabbiare l’appaltatore: “Il  ritardo italiano nasce qui. Un’opera pubblica non è una cattedrale nel deserto: perdi le 200 persone che lavorano al cantiere della stazione. Ma anche le 1000 che lavoreranno alla stazione”.

Il bello è che l’odissea non finisce neanche se il ricorso viene respinto: “L’impresa che ha vinto, a quel punto, guarda l’orologio e ti dice ho fatto l’offerta nel 2012 ma oggi siamo nel 2020!”. E inizia il calvario: “Ti dicono: ‘Io seguivo il tariffario regionale di allora. Oggi devo adeguarlo’. Ed ecco l’ultima maledizione: le varianti!”. Monti non le augura nemmeno al peggior nemico”.

Soluzione: “Vengano una sola volta, i magistrati e i politici, a seguire  una procedura di gara da questa parte del tavolo”. Il punto è che il cosiddetto “Modello Genova” non può essere la soluzione: “Lì c’era un soggetto privato che ha finanziato l’opera, senza gara, e ha pagato a pié di lista. Non puoi replicarlo nella Pubblica amministrazione”. Ecco perché Monti parla di “modello Italia”: tagliare i tempi. “Bastano due articoli e l’introduzione del silenzio-assenso”.

Poi c’e un sogno: “Articolo uno del nuovo codice: sono abrogate tutte le leggi”. Potrete immaginare che Monti sia impazzito invece spiega l’ultimo e più importante passaggio: “Ormai ci sono così tante varianti stratificate che se si sposta una parola o una virgola, in un articolo riformulato, diventi pazzo. Siamo oltre il bizantinismo”. Non so come chiudere l’articolo, mi gira la testa. Mi viene in soccorso lui: “Ricorda la nostra stazione, quella vera di Palermo? Era stata progettata nel 2008. Era ferma. È passata per le mani di cinque commissari e di cinque presidenti prima di me. La gara è stata fatta nel 2011. È finita un anno dopo, nel 2012. Bloccata.Nel 2017 sono arrivato io. L’ho sbloccata. Ad Aprile 2021 -compreso il ritardo del Covid – me la consegnano”. Un rapido conto sul taccuino: ci sono voluti dieci anni! “Io cammino sulla cornice delle norme. Se non fai questo gioco di equilibrismo sul filo non le realizzi. Se lo fai rischi”. 

Una lezione per tutti: “È nella complessità della burocrazia che si nasconde il sistema corruttivo. Perché ci sono due condizioni in cui è facile rubare”. Chiedo a Pasqualino quali siano, mi regala un ultimo sorriso, amarissimo: “Quando non c’è nessuna regola. E quando ce ne sono troppe”.

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