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Da diciotto camerieri a due. La storia di Checco racconta l’abisso dei ristoratori

Non è stato facile tener duro per due mesi. C’è chi ci ha provato con l’asporto, come Checco dello Scapicollo, in zona Eur, o con il delivery, come il Convivio Troiani, in vicolo dei Soldati. Ma l’epidemia da fallimento che ha appena cominciato a soffiarci addosso il suo respiro asfissiante rischia di farci tutti un po’ più poveri e di cambiare completamente le nostre abitudini. E resistere forse non basta più.

Francesco Testa, di Checco dello Scapicollo, «cucina mediterranea», specialità pasta all’amatriciana, sale gazebo immerse nel verde di un parco, e i fritti serviti nel buffet in giardino prima che il mondo incontrasse il coronavirus, ha raccontato al Tempo di aver avuto una riunione l’altro giorno con i suoi dipendenti, 18 persone: «e ho detto loro la verità, che non posso tenerli tutti in questo momento, a malapena me ne bastano due. Quindi, gli ho detto, cercate di mettervi d’accordo per i turni. Dopo di che sono stato ancora più sincero, perché non sono sicuro di poter continuare a pagare anche chi sta lavorando ora».

Il fatto è che questi due lunghissimi mesi di numeri e di bollettini hanno messo in ginocchio l’intero sistema della ristorazione. «Uno non immagina neanche i costi di gestione di un’attività simile. Il mio fatturato è stato zero. Solo a maggio ho avuto diecimila disdette tra comunioni, battesimi, cresime e matrimoni. L’altro giorno per fare l’asporto ho chiesto i soldi della spesa ai miei figli».

Ma da adesso in poi che cosa succederà? Testa dice che vede buio: «Non credo che la gente tornerà a sedersi al ristorante. Almeno nella prima fase. Da settembre o magari da ottobre forse si riprenderà». In Cina, dove la ripartenza è cominciata proprio mentre noi ci affacciavamo sul precipizio, le testimonianze non sono confortanti.

Il Temple Restaurant Groupe di Pechino ha dichiarato al New York Times di aver ripreso solo il trenta per cento dei pasti serviti ai tavoli. E Zhang Ypeng, proprietario della catena di Big Small Coffee, ha spiegato che ormai il 40 per cento del reddito proviene dalle consegne. A Wuhan, poi, nell’epicentro del Covid-19, questo cambiamento delle abitudini è ancora più netto. Il proprietario del ristorante Xiong Fei ha dichiarato che anche dopo la fine del lockdown la gente ha perso la voglia di uscire a cena: «Anche chi lavora preferisce ricevere i lunch box in ufficio. E alla sera le persone preferiscono cucinare a casa».

Non sappiamo se davvero l’epidemia del coronavirus abbia accelerato un passaggio che era già segnato nei percorsi del nostro tempo. Certo è che i marchingeni della modernità stanno rovesciando abitudini consolidate in qualsiasi settore della nostra vita, anche nei ristoranti. C’è già chi si è portato avanti con il lavoro: dallo smartphone il cliente può prenotare, sapere a quale tavolo recarsi, consultare il menu con le foto e le spiegazioni del piatto, ordinare e pagare.

In pratica al ristorante ci si va solo per essere servito velocemente, senza contatti con il personale. Dall’altra parte, per garantire un fatturato accettabile potrebbero cambiare gli orari di apertura e dei servizi: la cucina chiusa alle 14,30 e alle 22 non sarà più possibile. Ci saranno meno tavoli, ma distribuiti in tempi molto più lunghi. Mangeremo alle 6, o alle 15 o a mezzanotte. Un servizio sempre aperto. E’ che da qualche parte bisognerà trovare il modo di venirne fuori.

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