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L’Unione europea lancia la sfida alla deforestazione | L’intervento di Mario Di Giulio, partner dello studio legale Pavia e Ansaldo

Con il regolamento anti-deforestazione (Eudr) che diverrà cogente a fine anno e la direttiva due diligence per le catene di fornitura (Csddd) che dovrà essere recepita dagli Stati membri dell’Unione Europea entro due anni, divenendo gradualmente vincolante in un arco di 5 anni, la Ue ha compiuto un altro passo avanti nella realizzazione del Green Deal, volto a salvaguardare il pianeta dal cambiamento climatico e alla tutela dei diritti umani. Un tentativo di regolamentazione che, facendo leva sull’attrattività di un mercato unico di oltre 448 milioni di consumatori, aspira a produrre effetti ben oltre i confini geografici dell’Unione stessa.

Senza entrare negli specifici termini delle due normative, occorre rilevare che quella anti-deforestazione vincolerà indirettamente i produttori di cacao, caffè, palma da olio, gomma, soia, legno e bovini e relativi derivati, che vogliano rivolgersi al mercato unico europeo, imponendo loro di non utilizzare terreni oggetto di deforestazione e, al contempo, il rispetto dei diritti umani.

La seconda normativa imporrà alle aziende, aventi certi requisiti dimensionali di dipendenti e fatturato, di eseguire, lungo tutta la catena di fornitura, una verifica adeguata volta a identificare gli effetti negativi della propria attività sui diritti umani e sull’ambiente, identificando altresì gli strumenti per prevenirli, mitigarli o per porvi rimedio: in tal modo, sia il rispetto dell’ambiente sia quello dei diritti umani (compresi i diritti dei lavoratori), diverranno il criterio scriminante nella scelta dei vari operatori della catena di fornitura. A prescindere dalle critiche derivanti dalla normativa, il tema di fondo che si pone è se e quanto i tentativi di modellare l’economia in modo unilaterale possano essere vincenti.

Da un lato vi è il rischio di spostare simpatie e alleanze verso Stati quali la Cina, che fanno della non interferenza degli affari interni di un Paese il proprio mantra. Dall’altro vi è la crescita di una certa acredine nei confronti degli europei, che dapprima hanno distrutto habitat e civiltà e che poi decidono unilateralmente di fare marcia indietro.

Di tutto questo credo che vi sia ormai piena coscienza nella Ue e che essa stia ben rispondendo alle critiche, a partire dall’adozione della normativa sul ripristino della natura che impone agli Stati membri la ricomposizione del 20% delle aree terrestri e marine entro il 2030. Un argomento da utilizzare anche per spiazzare contestazioni quali quella levata, nei primi anni 90 nella conferenza di Rio, da un primo ministro malese che, sdegnato dalle politiche anti-deforestazione in discussione, invitò gli occidentali a ripristinare le proprie foreste invece di interessarsi a quelle altrui. Argomenti che parlano al ventre delle persone e fanno facile populismo, soprattutto dove il colonialismo ha lasciato delle ferite aperte.

La situazione climatica e lo stato dei diritti umani nel mondo devono invece spingerci a operare affinché le normative in parola siano efficacemente attuate: la posta in gioco è troppo alta per fare distinguo e discernere tra le colpe. In questo la Ue potrà dimostrare la genuinità degli intenti attraverso la scrupolosa osservanza delle regole a partire prima di tutto dai e nei propri confini e assistendo i piccoli produttori dei Paesi in via di sviluppo ad adeguarsi ai requisiti richiesti, non senza trascurare il supporto a Ong e organizzazioni sindacali che potranno svolgere il ruolo fondamentale di cane da guardia nel denunciare violazioni e mistificazioni, così rendendo attendibili le varie certificazioni.

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