Mario Draghi ha licenziato il suo Rapporto sul Futuro della Competitività dell’Unione.
Il titolo, un po’ convoluto come tutte le cose europee, nasconde una visione implicita.
Il futuro dell’Europa dipende dalla sua competitività rispetto alle altre grandi potenze, quindi il rapporto poteva chiamarsi sul Futuro dell’Unione.
L’Europa palesemente soffre il confronto negli ultimi 20 anni.
Dopo un lungo periodo di convergenza, il Pil pro-capite e la produttività del lavoro del continente divergono sistematicamente da quella americana e sono sempre più vicini a quella cinese.
In altri termini le misure della prosperità e della competitività sono sempre più lontane da quelle americane.
Al contrario la diseguaglianza salariale e totale è minore e la coesione sociale è il punto di forza del continente (e considerando i sistemi pubblici di sanità e istruzione probabilmente molto minore).
La sfida, quindi, è come aumentare la competitività preservando il nostro modello sociale relativamente equo.
La fonte dello svantaggio non è misteriosa.
Insufficiente innovazione, eccesso di regolazione, frammentazione dei sistemi.
L’insufficiente innovazione dipende da insufficienti investimenti nei sistemi di istruzione e ricerca, da scarso collegamento con il sistema economico del sistema della ricerca, dalla relativa assenza di finanza per l’innovazione e per la crescita delle imprese, venture capital e private equity.
La competitività del continente è poi azzoppata dalla scarsa competitività energetica con costi dell’energia per le imprese doppi e tripli rispetto ai competitori (Cina e USA) e la totale dipendenza strategica, in particolare di alcuni paesi.
Il bilanciamento della transizione energetica con le esigenze di competitività deve essere raggiunto con ingenti investimenti infrastrutturali e tecnologici.
Secondo Draghi bisogna aumentare gli investimenti su PIL di almeno 2 punti percentuali e serve uno sforzo fiscale corrispondente, da finanziarsi con uno sforzo comune, anche per evitare che paesi con meno spazio fiscale, leggi Italia, abbiano meno capacità di investimento.
In sostanza un nuovo PNRR o una espansione stabile del bilancio europeo, necessariamente sostenuta anche da debito.
Draghi si spinge poi a sostenere che anche la governance dell’Unione deve cambiare per eliminare il potere di veto di ognuno dei 27 paesi e rafforzare i poteri centrali dell’Unione.
Una notazione interessante riguarda le politiche di coesione.
Draghi ritiene che vadano riorientate per la creazione di poli di sviluppo e aumentando la quota di investimenti in innovazione anche nelle aree arretrate.
È utile capire che questo è l’opposto della politica che si propone di bloccare con sussidi le persone in aree che non hanno futuro e della retorica sull’abbandono dei posti ‘che non contano’.
Se questa è l’analisi del declino dell’Unione, va detto che la situazione italiana è, come accade, una sorta di caricatura della situazione europea.
Il declino relativo della produttività del lavoro è molto più profondo per il nostro paese e solo una fortissima compressione salariale ci consente di rimanere leader in alcuni settori, con esportazioni record.
In altri termini continuiamo ad esportare a ritmi record solo perché i nostri operai sono ormai molto più poveri di quelli tedeschi e francesi.
E questo è anche il motivo per cui abbiamo frotte di turisti dei paesi dell’est sulle nostre coste che acquistano beni e servizi sulle nostre spiagge che molti di noi non si possono più permettere.
Il disinvestimento sistematico nel sistema di istruzione, soprattutto universitario, che dura da diversi decenni non trova alcun avvocato nelle forze politiche e sicuramente non sarà un oggetto di attenzione nella prossima Legge di Bilancio.
La finanza per l’innovazione è stata oggetto per la prima volta di attenzione pubblica nel 2017 quando nella Legge di Bilancio il Ministro De Vincenti finanziò con il FSC un fondo di private equity per imprese meridionali.
Poi confluito nel molto maggiore Fondo Nazionale Innovazione presso CDP che ad oggi gestisce oltre 6 miliardi di Fondi.
Tuttavia, la dimensione di questo settore è piccola rispetto a quella di alcuni stati europei e praticamente irrilevante rispetto ai giganti del private equity americano.
Ovviamente il finanziamento degli investimenti necessari con debito comune conviene a un paese sopra tutti, l’Italia.
Per l’Italia la candidatura di Mario Draghi a Presidente della Commissione ventilata circa un anno fa poteva essere l’occasione per non soffrire troppo della necessaria contrazione di bilancio dopo le follie del superbonus.
A ben guardare il Rapporto fornisce un quadro, più chiaro e argomentato, ma non troppo diverso da quello tracciato da Macron alcuni mesi fa sull’Economist.
Forse ci sarebbe stata la disponibilità a una presidenza Draghi.
È molto difficile che altre personalità siano in grado di realizzare questo programma e già si sono manifestate contrarietà tedesche all’espansione del debito comune.