Si avvicina, almeno pare, la separazione delle carriere di giudici e pm, anche se da tempo pochissimi magistrati passano dal ruolo di pm a quello di giudice, trasferimento reso ancora più difficile dalla riforma Cartabia. La separazione è prevista da un disegno di legge di riforma costituzionale che prevede due CSM separati, uno per i magistrati giudicanti e l’altro per i pm, nonché l’abbattimento di un altro pilastro della separazione di competenze tra poteri dello Stato, perché verrebbe meno l’obbligatorietà dell’azione penale, che sarebbe invece esercitata “nelle forme e nei modi previsti dalla legge”: sarebbe cioè il Parlamento a stabilire l’ordine delle priorità e a decidere quali reati debbano esser lasciati prescrivere e quali no, essendo comunque impossibile trattare tutti i processi.
Il terzo punto della riforma riguarda le elezioni dei due CSM. Si prevede che la metà dei componenti sia scelta dal Parlamento. Verrebbe quindi meno la preponderanza di membri togati, con un deciso aumento di potere della componente scelta dalla politica. Inoltre, per combattere la formazione delle correnti all’interno della magistratura (caso Palamara docet) si vorrebbe che i magistrati scegliessero i loro candidati in una rosa individuata da un preventivo sorteggio, che farebbe dei prescelti, osserva Gaetano Azzariti su La Stampa, agnelli nelle mani dei “lupi” eletti dal Parlamento. L’ultimo tassello è rappresentato da un’Alta Corte, istituita ex novo, per giudicare gli illeciti disciplinari di magistrati e pm, oggi di competenza della sezione disciplinare del CSM.
Tutto ciò in nome del principio, da sempre sostenuto dalle Camere Penali, che la parità delle parti nel processo richiede che il pm abbia la medesima distanza dal giudice del difensore e non ne sia un collega, cui il giudice guarderebbe con maggior simpatia e vicinanza. Nel 2022 il referendum proposto per attuare la separazione delle carriere non fu approvato. L’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) si è sempre opposta a spada tratta contro questa riforma, affermando che essa segna la fine dell’indipendenza della magistratura e consegna il pm nelle mani del Governo.
Eppure, osserva Alberto Cisterna, presidenze di sezione del Tribunale di Roma, sul Messaggero, l’ANM sarebbe timorosa di proclamare uno sciopero, memore del pessimo risultato di quello del ‘22, cui aderì soltanto il 48% delle toghe, con i minimi del 22% in Cassazione e del 23% in Piemonte. Ciò perché molti magistrati sono critici con lo strapotere dei pm, o meglio di una parte di essi che. La verità è che il codice di procedura penale del 1989 affidando la direzione della polizia giudiziaria al pm, lo ha trasformato da garante della legalità dell’azione penale in promotore ed organizzatore dell’azione penale stessa, affidandogli un potere enorme, che condiziona di fatto anche la gestione dei tribunali, il lavoro della magistratura giudicante, di regola priva di mezzi sufficienti per gestire i flussi, nelle stesse condizioni di un’impresa che dipenda da un unico fornitore.
Ma i critici della riforma temono che il pm, se separato dal giudice, perda del tutto la cultura della giurisdizione e divenga sempre di più un inquisitore. E poiché’ l’esercizio di tutto questo potere non potrebbe esser lasciato privo di controlli, la riforma lo porterebbe fatalmente nell’area di controllo, se non del Governo, della maggioranza, che sarebbe in grado di controllare il CSM delle Procure. Tempi e modi della riforma, che richiede la modifica della Costituzione, e richiederà probabilmente un referendum di conferma, sono ancora incerti.
Che una riforma sia necessaria lo dicono con chiarezza il circo giudiziario-mediatico, gli accanimenti accusatori, le assoluzioni a distanza di molti, troppi anni, un certo lassismo disciplinare nella repressione delle cattive abitudini di alcuni magistrati. La questione, tuttavia, è delicatissima. L’indipendenza del giudice e le modalità con cui viene esercitata l’azione penale sono due pilastri fondamentali, prima ancora che della democrazia, dello stato di diritto. Non sono riforme da fare a colpi di maggioranza e tantomeno in una logica secondo la quale, come si legge, ogni partito del centrodestra avrebbe a cuore una data riforma, sì da ottenere in cambio il voto degli alleati per veder passare la propria.