La situazione drammatica prodotta dalla vicenda Covid è paragonabile solo a quella determinata dal secondo conflitto mondiale anche in termini di crollo del Pil e come in quel caso solo una reazione tempestiva può evitare che la recessione divenga depressione. Infatti la Commissione UE rileva come l’impatto negativo per l’economia dell’UE sia stato simmetrico, ma l’ampiezza del rimbalzo sarà diversa a seconda della “resilienza” dei singoli Paesi collegata alla struttura di ciascuna economia.
Occorre dunque una strategia reattiva alle quale devono corrispondere drivers consolidati per riadattare l’esperienza. Si tratta della capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura rendendola “invulnerabile”.
Orbene come accadde dopo il secondo conflitto mondiale solo un intervento straordinario pubblico può determinare una reale resilienza. Quello realizzato all’epoca con successo scaturì da un modello teorico assolutamente originale, un paradigma sperimentale con al centro la Banca Mondiale e le politiche di sviluppo internazionali, allo scopo di predisporre i programmi, i finanziamenti e l’esecuzione di opere straordinarie funzionali al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale. L’Italia, in quel periodo, è riuscita a realizzare una doppia convergenza sistemica, interna ed esterna e soprattutto tra nord e sud.
La “Cassa per Opere Straordinarie di Pubblico Interesse nell’Italia Meridionale”, nel 1950 dal Governo De Gasperi e concepita come un ente pubblico dotato di forte autonomia, ha costituito, insieme alla riforma agraria, il vero motore di quegli anni. Nelle intenzioni, l’ente intendeva ricalcare le agenzie di sviluppo locale avviate negli Stati Uniti d’America durante il New Deal, a cominciare dalla Tennessee Valley Authority. Oggi quel ruolo potrebbe essere rivestito per l’intero Paese dalla Cassa depositi e prestiti o da partecipate funzionalizzate ad hoc.
Quel modello è stato il frutto di un indirizzo interventista nell’economia, ma niente affatto statalista, in cui emergeva in primo piano il ruolo dell’azione pubblica nella programmazione e nella definizione dell’assetto dell’economia, come nel pensiero di John Maynard Keynes, con una specifica declinazione, riguardante l’implementazione della capacità produttiva e la crescita del sistema industriale in particolare nelle regioni meridionali.
Dal 1951 sino al 1992, l’intervento straordinario ha realizzato investimenti per oltre 200.000 milioni di euro (ai valori attuali), per una media annuale di oltre 4.700 milioni di euro. Una cifra estremamente considerevole anche se, a guardare con attenzione, pari mediamente a circa lo 0,7% annuo del Pil italiano. Gli investimenti della Cassa, il primo strumento attuativo dell’intervento straordinario, hanno prodotto 16.000 km di strade, 23.000 km di acquedotti, 40.000 di reti elettriche, 1.600 scuole, 165 ospedali.
Il successo dell’iniziativa, tuttavia, fu il risultato del riconoscimento della reciprocità degli interessi tra il Nord e il Sud nel senso della complementarietà del rispettivo sistema produttivo e dell’evoluzione del Mezzogiorno non solo in termini di sbocchi di mercato, ma di attività industriali diffuse, all’interno di una triangolazione di convenienze tra gli Stati Uniti, l’Italia e il Mezzogiorno stesso. Ora come allora solo questa doppia convergenza di interessi interna ed esterna con Europa, Stati Uniti e Cina può far funzionare il modello.
Nell’epoca del miracolo italiano il turnaround economico è stato impressionante, gli investimenti industriali nel Mezzogiorno sono cresciuti di due volte e mezzo ed il tasso di crescita del PIL è stato costantemente superiore di due punti percentuali rispetto alla media del Paese.
Il sorpasso nei ritmi di crescita del Sud rispetto a quelli del resto del Paese era avvenuto in corsa durante un ciclo espansivo, quando solitamente le distanze si allungano, e aveva consolidato nella reciprocità e nella convergenza l’intera struttura industriale nazionale.
Il big push, la grande spinta alla crescita realizzata attraverso gli ingenti investimenti infrastrutturali e produttivi non è stata completata specie per il subentro delle Regioni e l’avvio degli interventi a pioggia.
E questo errore del decentramento degli investimenti non deve essere ripetuto in questo caso.
Negli anni ‘70 si diffuse infatti una strategia improduttiva, fondata sulla crescita locale non sistemica, con l’impiego delle risorse secondo lo schema definito dagli osservatori della “pentola bucata”, basti pensare alle leggi c.d. 64 e 488, ed all’utilizzo parziale e frammentario, privo di una strategia unitaria, dei “fondi europei”. La devoluzione di poteri a livello locale senza che vi fossero adeguate competenze, i localismi, le clientele, l’intermediazione impropria e l’ambiente anche culturale non ha funzionato come nella versione centralista. È così peggiorata la governance complessiva nelle regioni meridionali, ma anche nel resto del Paese.
Si immagini che qualche anno fa a seguito della crisi del 2008 per il Fondo Monetario: “…il ritmo di crescita implica che l’attività produttiva tornerebbe ai livelli del 2007 soltanto alla metà degli Anni ‘20, allargandosi così la forbice con la crescita media dell’area dell’euro”. Ma le cose sono andate persino peggio delle previsioni, e ora per effetto del Covid, di questo passo forse solo a metà degli Anni ’30 ritorneremo al PIL del 2007. Per scongiurare tutto ciò e le immaginabili conseguenze occorrono poche e chiare linee di azione finalizzate a rilanciare lo sviluppo utilizzando in particolare il Mezzogiorno.
Un esempio è fornito dalla “perequazione infrastrutturale” prevista dalla legge, in gran parte disattesa. L’articolo 7-bis della legge 27 febbraio 2017, n.18, tuttavia impegna il Governo ad una spesa in conto capitale nei territori pari alla quota della popolazione.
In realtà con la clausola del 34% delle risorse ordinarie a favore del Mezzogiorno introdotta nella recente legge, anche se non compiutamente applicata, si è fissato un orientamento di fondo, che permette oggi di destinare alle regioni meridionali, con un forte effetto perequativo, la quota – proporzionale alla popolazione – delle spese in conto capitale delle amministrazioni centrali dello Stato.
Nel periodo tra il 2000 e il 2016, tale quota di spesa ordinaria in conto capitale delle amministrazioni centrali è stata pari ad appena il 23%.
E la perequazione deve riguardare anche gli investimenti delle grandi imprese pubbliche (di quelle poche rimaste dopo il disastro delle cosiddette privatizzazioni), di cui il Paese ha bisogno, accanto alle grandi multinazionali da attrarre, per funzionare da traino della piccola e media impresa.
È necessario dunque un pieno ritorno dell’intervento pubblico, non di impianto statalista, ma basato su una armoniosa ed efficace combinazione di Stato e mercato, che ponga al centro degli obiettivi di strategia industriale la funzione dell’impresa, come soggetto storico e istituzione fondamentale dell’ordinamento e del mercato.
L’impresa non è soltanto una diretta proiezione dell’imprenditore, ma è una realtà oggettivamente rilevante, cui l’ordinamento accorda tutela autonoma ed assegna un ruolo centrale.
Essa costituisce il punto di riferimento e di saldatura in cui confluiscono gli interessi di tutti coloro che si muovono nel suo ambito: l’imprenditore, i lavoratori e tutti gli stakeholders.
Si tratta di interessi diversi, spesso contrastanti, che tuttavia si compongono al fine di perseguire l’interesse oggettivo dell’impresa: il suo fisiologico inserimento nel mercato, interesse idoneo a sua volta ad appagare gli obiettivi individuali, perseguendo al contempo obiettivi di carattere generale.
Il concetto stesso di impresa e di creazione di valore è cambiato profondamente con la fine del modello fordista e sotto l’onda inarrestabile della quarta rivoluzione industriale, che fa ormai procedere la value chain in una sequenza lunga e larga, che parte dall’ideazione, dalla progettazione e dalla finanza, passa per la produzione di beni materiali, immateriali e di servizi, attraverso un ampio impiego dell’automazione e delle tecnologie intelligenti, per arrivare alla commercializzazione e distribuzione, alla vendita e al consumo – fino al riuso dei prodotti in una logica di economia circolare – per l’appagamento dei bisogni e perfino dei desideri degli individui.
Occorre concentrare insomma gli investimenti in un numero selezionato e contenuto di settori ed iniziative che possono fungere da locomotiva per l’intero sistema nazionale, secondo una strategia unica nazionale.
D’altra parte l’ intervento straordinario a cui abbiamo fatto riferimento fu modellato sul New Deal («nuovo corso» o letteralmente «nuovo contratto»), ossia il piano di intervento promosso dal presidente statunitense Roosevelt allo scopo di risollevare il Paese dalla grande depressione cominciata nel 1929 e sfociato nell’iniziativa della Tennessee Valley Authority (TVA), che era un’agenzia federale in qualche modo centralista, vista l’incapacità periferica nella gestione della crisi e nell’implementazione degli investimenti.
Dunque l’intervento deve essere dello Stato centrale e con pochi chiari obiettivi e pochi centri di spesa, senza interventi a pioggia.
Tale intervento deve a nostro avviso integrarsi con coordinamenti di più Regioni che organizzino “uffici unici” specializzati e centralizzati, anche sulla base dello strumento della cooperazione rafforzata fra le stesse previsto dall’art. 117, comma 8, cost., per il migliore esercizio delle proprie funzioni.