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Non c’è ripartenza senza abbattere (e non solo ridurre) i tempi della Giustizia. Ecco l’elenco degli ostacoli da rimuovere

Non può esistere ripartenza credibile dell’Italia senza abbattere i tempi della giustizia, specie nel settore civile.

Abbattere, non ridurre.

La durata media di un nostro processo civile, comprensiva di tutte e tre le fasi canoniche, è di circa otto anni, contro una media europea di due.

Nel settore penale tale durata è di tre anni e nove mesi, contro un anno di media europea.

Non va meglio nella giurisdizione amministrativa dove la durata media dei procedimenti è di cinque anni.

Tali dati sono estrapolati dal rapporto sull’efficienza della giustizia in Europa, redatto da un’apposita commissione (la European Commission for the efficiency of justice, o Cepej), la cui ultima edizione è dell’ottobre 2018 e contiene dati relativi al 2016.

Non si ha motivo di ritenere che siano intervenute significative variazioni negli ultimissimi tempi.

Appare ovvio che la grave lentezza con cui si risolvono i conflitti blocca affari, scoraggia investimenti, interni o esteri che siano, paralizza l’uso di beni e risorse di fatto inutilizzabili nell’infinita attesa della fine di spossanti vertenze.

Il riferimento ai tempi mitologici della giustizia italiana, di cui si vuol parlare in questa sede, peraltro non concerne soltanto la durata eccessiva dei processi nel nostro sistema giudiziario.

Si vuole anche, e magari soprattutto, analizzare una serie di leggende sorte intorno alle cause di tali ritardi e lungaggini dei procedimenti, cercando di separare ciò che è disfunzione da ciò che è invece esigenza fisiologica e quindi lineare funzionamento del sistema.

La comprensione corretta delle cause potrà così guidare qualche considerazione finale sui modi di affrontare questo tema cruciale.

In primo luogo ci si deve chiedere se un processo lungo non rappresenti in definitiva una miglior garanzia per le parti o invece costituisca sempre denegata giustizia. In realtà non conta tanto la lunghezza del processo, ma il tempo perso a causa di esso.

Vi sono processi necessariamente lunghi, per il numero di testimoni e delle attività istruttorie, per la delicatezza del tema, per la molteplicità dei temi da affrontare. Importante è quindi che le disfunzioni organizzative, la scarsità del personale e delle risorse non siano la causa di un ulteriore allungamento della durata fisiologica, né per i procedimenti semplici né per quelli complessi.

Perché quando accade ciò il ritardo diventa automaticamente protagonista. Questo vale sia in campo civile che penale, che in ogni altro settore della giustizia. Chi ha diritti se dovrà attendere oltremodo sarà comunque beffato dal loro riconoscimento tardivo. Chi ha torto potrebbe essere avvantaggiato del mantenere dei vantaggi illegalmente acquisiti, ma avrà sempre una spada di Damocle sul capo. Così come del resto molti imputati destinati alla condanna possono trovarsi a scontare pene detentive non brevi in epoche lontane dai fatti: forse anche per loro sarebbe stato preferibile pagare subito il c.d. “debito con la giustizia”.

A meno che non abbiano interesse a fruire della famigerata prescrizione.

Ecco, la prescrizione: un tema caldo e particolarmente bersaglio di pregiudizi. Non tanto in ambito civilistico, dove è opportuno assicurare la certezza dei propri diritti e quindi che le pretese altrui abbiano una scadenza chiara. In campo penalistico invece le lungaggini dei processi rendono spesso appetibile questa “chance” per salvare situazioni altrimenti disperate. E anche magistrati e avvocati a volte trovano rifugio e inconfessabile sollievo in essa per definire complicate vicende. In realtà anche in tale settore non può essere accettabile una sanzione differita a vita.

Non è giusto punire una persona per fatti molto risalenti nel passato, di cui si è persa, se non la memoria, quantomeno il sentimento della lesione prodotta dal reato. L’attualità dell’interesse sociale alla punizione deve essere sempre considerata in rapporto alla gravità del fatto. Più quest’ultima sarà elevata più la percezione del disvalore sarà lunga e la disciplina in materia, come peraltro accade, dovrà tenere conto di questa proporzione diretta.

Vi sono peraltro offese irreparabili, come ad esempio negli omicidi e negli abusi sessuali, in cui sarà inestinguibile anche tale senso del danno causato dal crimine.

Anche in tema di prescrizione quindi occorrerà che il tempo trascorso per decidere sia stato il meno possibile provocato dalle disfunzioni del sistema. Può comprendersi che un delitto venga denunziato o scoperto in ritardo, ben altra responsabilità sorge quando si arrivi alla maturazione del termine per l’incapacità della macchina giudiziaria di essere rapida.

Ci si chiede anche quanto le indagini troppo lunghe incidano sulla lentezza della risposta processuale. Anche qui non si può generalizzare: mentre per fatti complicatissimi (si pensi ad indagini di mafia o stragi tipo Ustica) è inevitabile impiegare molto tempo per giungere alla chiusura delle indagini, a volte non riuscendovi neppure, per tanti reati piccoli o medi il ritardo è dovuto al numero elevatissimo di casi ed incombenze delle Procure e delle Forze dell’Ordine.

Non è possibile che un singolo magistrato requirente debba in media seguire più di mille indagini all’anno, come per lo più accade. Sarà giocoforza costretto a lungaggini, forzature, abbassamento della qualità del lavoro.

Il ritardo quindi dipende solo dal sistema e non vi sono colpe dei magistrati? Certamente la produttività dei magistrati italiani è elevata, in rapporto a quella dei restanti paese europei, ad esempio. Sono rintracciabili in rete  in tal senso molti dati statistici. E per di più con l’aggravante di numerosi oneri, richiesti in tema di notifiche e di formalità, fino alla complessità richiesta per la redazione delle sentenze. I magistrati però, ad avviso di chi scrive, devono in diversi casi migliorare la capacità organizzativa dei ruoli, debbono utilizzare meglio gli strumenti tecnologici, non devono abbandonarsi alla dominante logica statistica, che li porta a dedicarsi ai molti processi minori accantonando quelli più complessi, che andrebbero invece privilegiati senza dubbio.

Altra mitologia, duplice ed opposta, concerne la scarsa punizione dei giudici inefficienti. In realtà non esiste forse nessuna categoria sottoposta a così numerose procedure disciplinari come quella dei magistrati. E la gran parte dei casi riguarda i ritardi nel deposito delle sentenze. Peraltro in modo odioso si finisce per vessare coloro che assumono più provvedimenti e meno rinvii, creando il rischio di tardarne la redazione, mentre restano immacolati quei giudici che si limitano al compitino, poche e semplici attività, non rischiando mai di accumulare ritardi.

È anche vero però che molte di queste procedure portano a proscioglimenti in quanto i magistrati competenti in materia disciplinare finiscono per riconoscere la non punibilità di chi ha comunque lavorato molto e con qualità. Quindi la percezione di ingiustizia disciplinare diffusa che avvertono molti giudici va meglio calibrata, pur dovendo considerare che la stessa apertura di una pratica disciplinare è in sé frutto di stress e ansia spesso immeritate.

Altro mito da affrontare riguarda la sacralità della motivazione delle sentenze. È proprio necessario che ogni sentenza, anche per banali conflitti di minima importanza, meriti decine di pagine di argomentazioni che illustrino la decisione? Provvedimenti amministrativi molto più incisivi di cause condominiali o relative a incidenti stradali lievi, ad esempio, sono contenuti nella paginetta di un dispositivo. Si pensi a ritiri di patente, ai c.d. “daspo”, alle revoche di cittadinanza, alle espulsioni di stranieri, al rilascio o diniego di permessi a costruire considerevoli fabbricati. È proprio necessario che ogni sentenza sia arricchita da pagine e pagine di narrazioni del processo e poi di motivazioni, talvolta ripetitive e superflue?

Dopo queste sia pur sommarie considerazioni vanno provate delle conclusioni. Per velocizzare il sistema giudiziario è necessario quindi l’aumento dei giudici? Non è certo l’unica strada, anche se la proporzione fra magistrati e popolazione in Italia è alto (cioè giudici e pp.mm. sono pochi in rapporto agli abitanti), mentre è basso quella con l’avvocatura (cioè i legali sono davvero tanti). Riterrei più utile procedere in modo aziendalistico, aggettivo per cui ho antipatia, ma che rende bene l’idea sul come procedere: bisogna calcolare il rapporto in un dato periodo fra il numero dei giudici in servizio in un dato ambito per quantità di lavoro esigibile individualmente e lavoro complessivamente richiesto al sistema giudiziario in quello stesso ambito (nazionale, locale, settoriale).

Solo se il lavoro richiesto sarà esigibile con una qualità buona allora l’organizzazione giudiziaria potrà definirsi proficua. Quindi o si aumentano i giudici, o diminuisce il lavoro richiesto al singolo. Tale ultimo risultato, certamente più economico dell’aumento degli organici, si può ottenere in due modi: o riducendo il numero di cause sopravvenienti (con forme di depenalizzazione, conciliazioni, arbitrati e giudizi alternativi), o riducendo il carico di lavoro nel singolo processo per il magistrato (procedure più snelle, motivazione ridotta o assente, minore ricorso alle seconde e terze fasi, ausilio al giudice con uno staff competente ed adeguato).

La politica, intesa come titolare della funzione legislativa, è chiamata a fare delle scelte fra varie opzioni e soprattutto le deve rendere praticabili. Il codice di procedura penale del 1989, passando al sistema accusatorio lavorò ottimamente sui principi, sia pure con qualche svarione. Tuttavia morì prima di nascere perché non seppe rendere possibile la propria concreta attuazione. Bisogna sempre fare i conti con la realtà, dove i calcoli sono impietosi. Se un giudice ha sul proprio ruolo mille cause non le può fare bene e da solo, se chiamato peraltro a definirle con complessi provvedimenti. E si avvantaggeranno del caos creato sia coloro che usurpano diritti, sia quella quota di furbetti addetti alla macchina giudiziaria che nella confusione si nascondono e sembrano persino efficienti.

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