Uno dei temi maggiormente oggetto di dibattito nell’attuale momento storico concerne la libertà di stampa. Essa, come ben sa il lettore, rinviene il proprio fondamento nel diritto alla libera manifestazione del pensiero, la cui titolarità la Costituzione riconosce solennemente a chiunque. Un diritto che rappresenta il perno di ogni sistema democratico, poiché il pluralismo delle idee è condizione imprescindibile ai fini dello sviluppo e del progresso di una società.
Molteplici gli interessi sottostanti che si intendono salvaguardare: la possibilità per ciascun individuo di partecipare al dibattito, di qualunque natura esso sia, attivamente, e ciò anche nella prospettiva della piena affermazione della persona umana; inoltre, l’insopprimibile esigenza di assecondare l’interesse della collettività ad essere informata, affinché ognuno possa formarsi un’opinione su vicende, accadimenti, personaggi e personalità.
La libertà di stampa – da riguardarsi non solo come diritto di cronaca, ma anche come diritto di critica – assolve, al pari della satira, altresì a un compito di controllo e di mitigazione dei potenti. Trattasi di una funzione il cui impatto è – ovviamente quando correttamente esercitata – quanto mai rilevante nelle dinamiche pubbliche (ma anche in quelle private rispetto alle quali vi sia un interesse pubblico alla conoscenza).
Tra gli obiettivi perseguiti vi è, da un lato, quello di consentire di affermare appieno lo spirito di servizio con cui il detentore del potere pubblico è chiamato ad esercitare la propria attività, avendo di mira in via esclusiva l’interesse della collettività; dall’altro, viene offerta a coloro i quali delegano il potere – principalmente, ma non solo, i cittadini attraverso il voto espresso nella cabina elettorale – l’opportunità di una verifica e di un controllo dell’operato degli esercenti pubbliche funzioni, affinché nessuno possa sentirsi onnipotente e/o immune da critiche.
Se tutto questo è vero – e non mi pare possa essere messo in dubbio – i tentativi della politica di accaparrarsi i favori dei mezzi di comunicazione vanno respinti convintamente, poiché determinano corto circuiti pericolosi. Trattasi di una libertà alla quale il nostro Costituente ha attribuito, come già sottolineato, valore determinante per la tenuta della struttura democratica, in guisa che la sua obliterazione si risolve in un vulnus per l’intero sistema.
In questa direzione, la Corte costituzionale ha in passato più volte messo in luce come, tra le libertà riconosciute dalla Costituzione, la libertà di manifestazione del pensiero sia tra quelle che meglio caratterizzano l’organizzazione e l’identità dello Stato.
Del resto, l’uomo o la donna al potere, se avveduti, dovrebbero senza difficoltà rendersi conto che un giornalismo compiacente rischia di diventare stucchevole e controproducente, in quanto appiattisce la riflessione e, col passare del tempo, rende poco credibili le idee e l’operato.
La cronaca e la critica, quando invece oggettivamente esercitate e fondate, nonché supportate sul piano dell’incedere argomentativo, restituiscono, mediante la dialettica che sono in grado di provocare, spessore e interesse verso il personaggio che, di volta in volta, viene in considerazione. A sua volta, questi – se capace – potrà dialogare, interloquire, quindi controreplicare, rafforzando la propria immagine ed evidenziando virtuosamente la propria azione.
Perché tutto questo accada è fondamentale che i giornalisti incarnino il proprio ruolo assumendo quale bussola insopprimibile della loro attività quella della verità e della correttezza dell’informazione. Situazioni di partigianeria, di accanimento aggressivo, di distorsione della realtà degli accadimenti, di interpretazione dei fatti viziata da pregiudiziali ideologiche, ed altre ancora, rappresentano un “tradimento” della nobile funzione che i medesimi giornalisti – a loro volta detentori di un “potere” particolarmente impattante – sono chiamati a rivestire.
Il giornalista non può essere, ab initio e pregiudizialmente, né dalla parte del potente né, all’opposto, contro. Egli deve sempre e solo collocarsi dalla parte della collettività, del lettore, dello spettatore, dell’ascoltatore, in quanto – se intende rettamente interpretare il ruolo – solo a costoro è chiamato a dar conto del proprio operato.
(Pubblicato sul Corriere della Sera edizione Bologna)