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Lo slalom delle Banche tra i rischi | Lo scenario

La tempesta scaturita dalle crisi di Svb Bank e First Republic Bank negli Stati Uniti prima e da quella di Credit Suisse in Europa dopo non sembra finita.

Le tensioni che venerdì 24 hanno scosso i listini azionari dimostrano come gli elementi di rischio ci siano e partono dalle banche.

Che però potrebbero non essere l’unico fattore da allarme rosso.

Perché c’è il rischio che il vulnus si propaghi ad altri settori di mercato.

L’ultimo istituto finito nel mirino è Deutsche Bank.

Il primo vigilato dalla Banca Centrale Europea.

I titoli della banca di Francoforte hanno perso l’8,5% venerdì, mentre i credit default swap hanno superato i 200 punti base.

La fibrillazione è arrivata dopo l’annuncio del riscatto anticipato di titoli Tier 2 subordinati da 1,5 miliardi di dollari a tasso fisso con scadenza al 2028.

Una mossa che ha soffiato sulle braci di una speculazione che, dopo il salvataggio di Credit Suisse, evidentemente non si era ancora spenta.

Secondo molti esperti quella in atto ha tutte le caratteristiche di una classica crisi di fiducia, un po’ come era successo nel 2008.

Ma se quindici anni fa il tema era la solvibilità, questa volta la questione sembra legata alla liquidità.

Negli anni i tassi bassi e le enormi disponibilità di soldi ‘gratis’ hanno portato gli investitori a privilegiare strategie di investimento che permettessero di andare a caccia di un rendimento adeguato.

Anche a costo di scegliere di percorre strade che, con tassi più alti e una minore liquidità in circolazione, si sarebbero potute rivelare in un certo qual modo rischiose.

Non sono poche le banche d’affari e gli asset manager che in un contesto di tassi bassi durato anni hanno preferito puntare su attività illiquide ed esposizioni rischiose.

Nel frattempo autorità e regolatori hanno imparato dalle lezioni del passato, come quella del 2008, e oggi hanno molti più strumenti per governare e circoscrivere rischi e crisi.

Eppure non sono riuscite a impedire a una banca di medio-piccole dimensioni come Svb Bank di trovarsi in una situazione insostenibile di fronte all’improvvisa corsa al ritiro dei depositi da parte dei clienti dell’istituto.

Una condizione che ha evidenziato tutti gli errori nella gestione degli attivi: forse la maggior parte erano anche di buona qualità, ma hanno dovuto essere venduti in fretta e furia per coprire le richieste di liquidità, rendendo così reali le perdite sulla carta.

Da lì si è arrivati fino a Deutsche Bank e “guardando al futuro, più a lungo le condizioni finanziarie rimarranno in tensione, maggiore sarà il rischio che gli stress si diffondano oltre il settore bancario, scatenando danni finanziari ed economici maggiori di quanto previsto”, scrive Moody’s nel suo ultimo rapporto sulle condizioni del credito globale.

Ecco perché il credit crunch che sta colpendo alcune banche rischia di ampliare la mappa dei rischi.

MF-Milano Finanza ha provato a disegnarne una.

La differenza con il 2008 è che oggi non c’è un asset class pronta a svolgere il ruolo del cattivo come fecero allora i mutui subprime.

Questo è il pensiero dominante, e rassicurante, tra analisti e strategist.

Eppure la classe degli investimenti immobiliari è una delle prime indiziate tra quelle che possono diventare un problema.

Perché? I bassissimi tassi d’interesse degli ultimi anni avevano spinto gli investitori a lanciarsi in operazioni di sviluppo che potrebbero anche non essere più realizzate rispettando condizioni e tempi programmati.

In più varie analisi indicano che al rialzo dei tassi dai livelli bassissimi degli ultimi anni può corrispondere una caduta dei prezzi degli immobili più forte rispetto alle stime.

Secondo Goldman Sachs, il settore immobiliare commerciale è un mercato di grandi dimensioni, con oltre 5.600 miliardi di dollari di prestiti. Con rischi di concentrazione elevati.

L’investimento immobiliare è anche un’attività ad alta leva finanziaria, che può spazzare via rapidamente il capitale proprio quando il costo del debito aumenta in maniera brusca e improvvisa, come sta succedendo da un anno a questa parte.

Un primo campanello d’allarme era già suonato alla fine del 2022, con protagonista una delle più grandi società finanziarie del mondo: Blackstone.

Il colosso degli investimenti, per evitare di dover svendere gli asset illiquidi, ha limitato i riscatti degli investitori nel suo fondo immobiliare Blackstone Real Estate Income Trust, generando panico tra i sottoscrittori che in buona parte sono corsi a chiedere il rimborso delle quote.

Il fondo da circa 125 miliardi di dollari sta razionando i riscatti dalla sua ricca base di investitori già da quattro mesi, proprio per evitare vendite che genererebbero perdite Tech e start up.

Della crisi che ha colpito il settore tech si sente parlare da mesi.

Nel 2022 anche i grandi colossi del Nasdaq, da Meta ad Alphabet e ad Amazon, hanno sofferto bruciando centinaia e centinaia di miliardi di capitalizzazione in borsa.

Ma qui i potenziali rischi si annidano negli investimenti nelle società non quotate e in quelli rivolti alle start up che puntano sul tech e sull’innovazione tecnologica.

Anche in questo caso il motivo è che spesso a dettare le strategie d’investimento è stata la ricerca di profili di rischio-rendimento decisamente alti.

Già prima ancora del tracollo di Svb il settore dell’innovazione era in flessione e il motivo è semplice: le strette monetarie delle banche centrali hanno alzato il costo del denaro e di conseguenza dei finanziamenti.

I capitali di rischio, favoriti da anni di tassi d’interesse a zero, sono stati i primi a tirare il freno a mano.

L’attività di venture capital negli Stati Uniti è scesa di circa il 36% (dati EY), quella europea è passata da 109 a 92 miliardi di euro investiti (fonte Pitchbook).

Ma negli anni precedenti la tecnologia ha sempre attratto masse importanti e ora, con tassi più elevati e il ri-orientamento verso investimenti più cauti, potrebbe sottrarre al settore la liquidità di cui avrebbe bisogno: alcune startup e società tech potrebbero ‘saltare’, trascinandosene dietro altre a catena.

E poi occhio ai debiti. Secondo S&P, il debito globale ha raggiunto la cifra record di 300.000 miliardi di dollari, pari a una leva del 349% sul prodotto interno lordo.

Questo è l’indebitamento record a cui governi, famiglie, società finanziarie e non finanziarie devono fare fronte.

Un debito medio di 37.500 dollari per ogni persona nel mondo a fronte di un pil pro capite di soli 12.000 dollari.

Soltanto che il servizio del debito oggi è diventato più complesso.

I tassi dei Fed e Bce sono aumentati in media di tre punti percentuali nel 2022 e continuano a salire.

Supponendo che il 35% del debito sia a tasso variabile, sono 3.000 miliardi di dollari in più di spese per interessi.

Questo significa che sono tempi duri per quelle società il cui business si basa su un elevato ricorso alla leva finanziaria e soprattutto per quelle imprese che non hanno sfruttato a dovere le finestre precedenti per strappare tassi di interesse meno elevati rispetto agli attuali.

“I rischi di credito si mantengono elevati”, scrive S&P, “e le tensioni sulle banche sono l’ultimo episodio di una volatilità finanziaria in parte causata dall’aumento dei tassi di interesse”.

S&P si attende che la qualità del credito sia ancora sotto pressione, dato l’aumento dei tassi e il rallentamento della crescita: i downgrade stanno superando gli upgrade e i tassi di default sono in aumento.

Le difficoltà maggiori rischiano di averle quelle banche che hanno in pancia molte obbligazioni a lunga scadenza, che se costrette a venderle per avere liquidità potrebbero accusare perdite che non avrebbero se tenessero i titoli a scadenza.

Riavviando il circolo vizioso a cui si assiste da inizio mese.

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