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Le campane a morto per Navalny devono dare l’allarme a tutta l’Europa | L’analisi di Mario Sechi

La morte di Alexei Navalny è più di un memento sulla realtà della Russia e del suo presidente, commenta su Libero Mario Sechi: è una distesa di campane che rimbomba per tutto l’Occidente, è il richiamo di un’antica battaglia che qualcuno pensava chiusa con il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, è lo scontro tra il Bene e il Male che per cinquant’anni definì la vita nell’era della Guerra Fredda.

Vladimir Putin è responsabile della sua morte per un motivo corazzato da una ferrea logica, in punta di diritto e di fatto: Navalny era sotto la custodia della Russia, è morto a 47 anni a Kharp, nel Circolo Polare Artico, in una prigione il cui nome evoca tutta la sua durezza, “la colonia dei lupi polari”. Come ha ricordato l’editorial board del Financial Times, dopo Stalin, la dissidenza in Unione Sovietica era punita con la prigione, l’esilio interno o l’allontanamento all’estero, ma l’assassinio era un evento raro, nella Russia di Putin l’avversario politico che non si allinea al Cremlino perde la vita.

Un tempo erano i “raffreddori sovietici” oggi è una formula sofisticata, “sindrome da morte improvvisa”, il risultato è lo stesso, la sparizione di un oppositore scomodo. Era una fine annunciata, nel 2020 il dissidente russo era sopravvissuto all’avvelenamento – quasi certamente ad opera di agenti della sicurezza – con un gas nervino di tipo militare, il Novichok.

Putin certamente aveva messo nel conto, l’incidente, il cedimento, tutta la procedura di falso, verosimile e vero che si mette in moto quando un uomo viene letteralmente mandato a morire in un luogo dove non c’è domani. La morte per mano della Russia non prevede né pietas né onore, la Grande Falciatrice colpisce e se ne va, al resto pensano le squadre di “pulizia” dei servizi segreti, le burocrazie dell’assassinio.

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