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[L’analisi esclusiva] Giuseppe Coco (economista) «Quello che dobbiamo imparare dalla lezione della Cassa per il Mezzogiorno»

Il 2020 è l’anno del 70° anniversario della fondazione della Cassa per il Mezzogiorno.

Sulle vicende che portarono una classe dirigente unica nella storia d’Italia, perché composta in effetti di dissidenti ad un regime autoritario molto popolare, e soprattutto una grossa parte della classe dirigente del nord a concepire l’intervento straordinario, si sono scritte moltissime pagine.

Oggi per noi rileva soprattutto capire cosa quella esperienza ci racconta sull’Italia ed il Mezzogiorno di oggi, anche in rapporto al successivo (alla fine della Cassa) trentennio di politiche ispirate a un paradigma del tutto alternativo, quello della Nuova Programmazione.

Domani l’Associazione di promozione del Mezzogiorno Merita avvia questa discussione, anche in vista dell’intervento Next Generation EU, con un convegno di studiosi, manager pubblici al massimo livello e istituzioni, che sarà concluso da due Commissari Europei e dal Presidente del Consiglio (https://www.associazionemerita.it/).

La Cassa ha attraversato varie fasi della sua storia (per chi vuole approfondire si vedano i pregevoli lavori di Amedeo Lepore). Inizialmente l’intervento straordinario era concepito come un intervento di infrastrutturazione, soprattutto in campo agricolo. Bonifiche, irrigazioni, e altre opere di infrastrutturazione basilare anche per la popolazione civile erano necessarie per portare metà dell’Italia nel XX secolo, dopo la scoperta della condizione miserevole in cui il fascismo l’aveva lasciata. Dal 1957 invece, ed anche per effetto dei suoi successi, la missione della Cassa si espanse alla promozione della industrializzazione del Mezzogiorno, anche attraverso l’intervento diretto di costituzione di poli industriali.

Nei quindici anni successivi la parziale industrializzazione del Mezzogiorno ne cambiò il volto, arrestando in parte il flusso impetuoso di emigrazione dal sud. Le industrie del nord furono in parte delocalizzate, anche approfittando dei consistenti incentivi (oggi considerati del tutto normali). In questo periodo come ampiamente documentato, mentre il paese intero cresceva, il Mezzogiorno d’Italia crebbe a tassi più elevati del nord, riducendo per la prima volta nella storia unitaria il gap di condizioni di vita.

A partire dagli anni ’70 la mancata ristrutturazione della grande industria nazionale a fronte della aumentata concorrenza internazionale e la debole risposta istituzionale alle crisi petrolifere, rese l’intervento via via più sensibile alle pressioni delle comunità locali generando una semplice distribuzione di risorse.

La nascita delle regioni che immediatamente si costituirono come interlocutori della Cassa sulle allocazioni degli interventi peggiorando una tendenza già avviata alla intrusione della politica nelle scelte di finanziamento come risposta alla crisi, rese sempre più assistenziale e meno giustificabile l’intervento.

Mentre una riforma dell’intervento era necessaria per ragioni storiche, di cambiamento di scenario, alcuni studiosi interpretarono il vizio della Cassa al contrario come un vizio di dirigismo, di insensibilità alle istanze territoriali, proprio mentre la Cassa diventava più politicizzata e ‘sensibile’.

Questa ideologia portò alla elaborazione di una politica che esaltava il ruolo della concertazione territoriale e della spartizione di risorse.

La politica di coesione e sviluppo fu affidata alle regioni secondo una logica di divisione di risorse.

Esse, a loro volta, per la stessa logica, ne hanno sostanzialmente diviso l’allocazione tra i diversi territori, parcellizzando l’intervento.

Persino sul Fondo Sviluppo e Coesione, un fondo nazionale furono fissate quote regionali, la cui spesa andava ovviamente poi programmata con le regioni.

La concertazione con diritto di veto a tutti i livelli istituzionali è stata il tratto caratteristico della successiva esperienza, che ha condotto ad una efficienza spaventosamente bassa e un ritardo cronico nella loro attuazione.

Oggi l’esperienza della Cassa è attuale e allo stesso tempo inattuale.

Il Mezzogiorno non è più quello degli anni 50, in cui la mancanza di servizi basilari rendeva l’intervento un imperativo morale, anche se la miseria non è un fatto del passato.

Molti strumenti di tutela allora inesistenti però esistono e larghi strati di popolazione, anche non povera, vivono in maniera di fatto parassitaria. Allo stesso tempo esistono a macchia di leopardo, esperienze imprenditoriali avanzatissime, secondo qualunque parametro.

Questo rende più importante giustificare in maniera adeguata l’intervento di coesione e sviluppo.

Il primo vero fattore di successo della Cassa fu di tipo organizzativo.

La Cassa si caratterizzò dall’inizio come una tecnostruttura molto diversa da quelle attuali, con una vocazione di tipo attuativo e composta in maniera rilevante da tecnici con formazione scientifica.

Mentre in anni recenti l’azione di governo si caratterizza sempre di più per la moltiplicazione di organi sovrapponibili di monitoraggio, facilitazione e impulso e, dulcis in fundo, valutazione.

Si tratta di organismi che, aggiungendo un livello di trasmissione di documenti e loro discussione, e un parere aggiuntivo, rendono più farraginose le procedure piuttosto che semplificarle.

La Cassa al contrario era attuatore e responsabile del processo di attuazione e questa è la prima lezione.

Non si tratta di avere un unico soggetto responsabile per tutte le fasi del processo, ma una chiara attribuzione della responsabilità per fasi diverse, garantendo ai soggetti attuatori la necessaria flessibilità ed autonomia di azione.

Il secondo fattore consisteva nella scelta di progetti sulla base di valutazioni non politiche. Senza pretendere una analisi costi benefici, sarebbe importante dimostrare che il costo di certi progetti sia ragionevolmente commisurato al numero di cittadini che possono beneficiarne, per evitare ad esempio di costruire ferrovie su cui passeranno treni vuoti.

Il terzo fattore consisteva nella possibilità di ignorare logiche di distribuzione territoriale delle risorse, per regioni, province e comuni. Ciclicamente alcuni economisti e scienziati sociali di ispirazione romantica si innamorano dell’idea che lo sviluppo possa essere decentrato e che le economie di localizzazione connesse alla concentrazione siano scomparse. La realtà si incarica regolarmente di smentirli.

In anni recenti si è scoperto che erano cambiati solo i fattori di vantaggio competitivo, non il fatto in sé.

La concentrazione di intelligenze e investimenti innovativi è diventato il fattore di successo determinante, e porta con sé rilevantissime esternalità da contiguità, forse maggiori del passato, pur in connessione con tecnologie che dovrebbero rendere meno rilevante la presenza fisica.

Negli anni ’50 un intervento dirigista per l’industrializzazione aveva senso, oggi molto meno. Le condizioni di ‘recupero’ (Catch up) in cui era impegnata l’economia nazionale negli anni ’50 e che rendevano molto più facile prevedere su quali industrie puntare per aumentare la produttività di sistema, in un contesto di fatto fordista, non si applicano più.

I fattori di successo su cui investire oggi sono l’innovazione, o anche solo la capacità di recepire l’innovazione nei diversi servizi (il vero tallone di Achille del nostro paese), le infrastrutture digitali ma soprattutto le capacità in questo campo. Da un punto di vista settoriale invece abbiamo una sola certezza, le tecnologie legate alla decarbonizzazione nei trasporti ed energia saranno vincenti.

Ma gli investimenti connessi non possono comunque essere realizzati in autonomia da soggetti pubblici per vincoli di capacità ma anche regolamentari, derivanti dalla nostra appartenenza alla Unione Europea.

In ultima analisi l’esperienza della Cassa alla luce della principale alternativa attuata successivamente oggi risulta un intervento di successo.

Essa conserva per noi alcune lezioni rilevanti, nonostante sia certamente non riproponibile nelle forme e modi del passato.

Si tratta di farne tesoro nel momento in cui impostiamo le politiche di sviluppo del prossimo ciclo e contemporaneamente utilizziamo le risorse del Next Generation EU.

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