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La BCE e lo spettro del conflitto distributivo | L’analisi

Uno spettro s’aggira per l’Europa: non quello del comunismo, ma, più modestamente, lo spettro del conflitto distributivo.

È la Bce a segnalarlo, senza distinzioni tra falchi e colombe.

È un fattore che ostacola (versione falchi) o rischia di frenare (versione colombe) la disinflazione, richiedendo il mantenimento della stretta monetaria per un più lungo periodo, sempre che un aggravamento delle crisi bancarie non faccia il lavoro che è ora affidato ai tassi d’interesse.

La lettura proposta da Francoforte è piuttosto netta.

Con la recessione della pandemia e poi lo shock energetico i profitti (normalmente pro-ciclici) non sono scesi, sono anzi aumentati a riflesso di prezzi praticati dalle imprese che hanno cavalcato i rincari energetici salendo più di quanto giustificato dall’andamento dei costi.

Vi è dunque in Europa una componente di inflazione da profitti, a cui ora seguono rivendicazioni salariali per recuperare potere d’acquisto.

Perché si blocchi la spirale occorre che le richieste siano contenute e comunque accomodate con compressione dei margini.

A tal fine la Bce (ma qui sono i falchi a parlare) non può mollare anzitempo la presa.

Questo quadro è ovviamente schematico, sussistendo molta eterogeneità di comportamento nei settori e tra le imprese.

Tuttavia, la Bce prende le sue decisioni sulla base dei dati medi, le varianze contano fino a un certo punto.

Ma il punto che ci tocca più da vicino è che lo scenario di inflazione da conflitto distributivo, da tenere a bada con la politica monetaria, riguarda l’area euro nel suo insieme, importanti paesi membri a partire dalla Germania, ma non l’Italia.

I dati mostrano che da noi, al contrario di quanto è avvenuto Oltralpe, i margini operativi lordi delle società non finanziarie si sono ridotti in rapporto al valore aggiunto.

Ci si poteva forse aspettare da una variabile ciclica un calo maggiore, ma non è il balzo dei profitti tedeschi.

Il markup, dato dalla distanza tra prezzi e costi variabili, è sceso.

Anche qui, la compressione poteva forse essere più marcata, ma non è un fenomeno eclatante e (come mostra il rapporto del Centro Studi Confindustria) sottende ampie differenze settoriali.

La quota del salario nell’economia si è sensibilmente ridotta in Germania e altri paesi.

In Italia l’indebolimento nel 2022 è stato limitato: il calo di reddito reale pro-capite ha in parte riflesso la perdita di ragioni di scambio subita dall’intero paese e per la parte restante è stato compensato dalla buona dinamica dell’occupazione.

Infine, pressioni retributive e rivendicazioni contrattuali risultano da noi molto meno forti di quelle che si osservano in Germania e in altre economie nordeuropee.

In Italia, i sindacati sembrano puntare più sul fisco che sulle imprese per ottenere maggiori guadagni netti.

In definitiva, si delinea una eterogeneità italiana nella paventata spirale europea di prezzi-salari che renderebbe la stretta monetaria della Bce non proporzionata alle specifiche condizioni del nostro paese.

Questo è un motivo in più per concentrare gli sforzi al recupero dei ritardi e alla realizzazione del Pnrr, unico fattore di stimolo a disposizione per la nostra economia.

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