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Il mercato del lavoro italiano mostra segni di vitalità, ma è ancora malato | L’analisi

Intervento dell’economista Giampaolo Galli

Negli ultimi due anni il mercato del lavoro italiano ha dato segni di inattesa vitalità. Il tasso di occupazione ha raggiunto un massimo storico (oltre il 60%), la disoccupazione totale e quella giovanile sono molto diminuite, quasi due milioni di persone si sono dimesse confidando di poter trovare un lavoro migliore.

Speriamo che questi trend continuino e che a nessuno venga in mente di abrogare il Jobs Act, che è stato uno dei motori di questa ripresa. Ma il mercato del lavoro italiano è ancora malato perché quasi tutta la flessibilità riguarda gli outsider.

L’Italia è fra i paesi con il più gran numero microimprese, di lavoratori in nero, di false cooperative, di lavoratori autonomi che sono in gran parte false partite Iva, di lavoratori con contratti precari.

Il problema non riguarda solo la flessibilità in uscita (che è stata molto ristretta in seguito a improvvidi interventi della Corte Costituzionale), ma anche le rigidità dei CCNL; i tanti tentativi di dare più spazio alla contrattazione decentrata hanno avuto scarso successo.

Sicché oggi è difficile per un’impresa premiare i lavoratori o i reparti che hanno fatto bene e viceversa. Ed è molto difficile creare un legame fra salari, produttività e costo della vita nelle diverse aziende e aree del paese: in sostanza, il merito non conta e il salario è più o meno uguale per tutti.

Ma il merito, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra perché nulla può impedire ad un’impresa di “licenziare” un’altra impresa o un lavoratore autonomo o un precario.

L’estrema de-verticalizzazione dei processi produttivi è in parte dovuta alla tolleranza fiscale verso la microimpresa e il lavoro autonomo, ma in gran parte è dovuta al fatto che la grande impresa verticalizzata è soggetta a tutte le rigidità delle leggi e dei contratti.

Se molti compiti (lavorazioni intermedie, consulenza legale, manutenzione ecc.) vengono dati in outsourcing, ad altre imprese o a lavoratori autonomi, le rigidità spariscono del tutto e l’impresa è libera di premiare chi fa bene e viceversa: basta decidere di rinnovare o non rinnovare il contratto al fornitore.

Non si può dire dunque che il sistema nel suo complesso soffra di un eccesso di rigidità. Ma la flessibilità è tutta a carico dei lavoratori autonomi, dei precari e delle microimprese e del loro dipendenti, anche perché per la politica il costo del fallimento di un’impresa di cinque dipendenti è pressoché nullo.

Ed è ovviamente a carico del lavoro irregolare, che in qualche misura è presente anche nelle imprese in regola: il “fuori busta”, ovviamente in contanti, rimane uno dei metodi con cui i titolari delle piccole imprese premiano i lavoratori migliori.

Questo è un sistema che protegge i pochi privilegiati che hanno contratti a tempo indeterminato con le poche imprese strutturate che abbiamo in Italia, ma è un sistema che non premia il merito, non fidelizza i lavoratori, fa poca ricerca. Vivacchia e, con poche eccezioni, non è fatto per crescere e vincere su mercati internazionali sempre più competitivi.

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