La narrazione del mercato sembra ottimista: gli utili societari sono robusti, le aziende e i consumatori sembrano in grado di sopportare un aumento dei tassi d’interesse senza che l’economia vada in recessione e l’inflazione non sta scendendo abbastanza rapidamente da far pensare che le banche centrali abbiano esagerato.
Sia i mercati sia gli investitori appaiono solidi: le borse si sono rapidamente riprese a maggio dal sell-off di aprile e le oscillazioni degli ultimi mesi sono state digerite senza contagio sistemico.
L’obbligazionario è un po’ più debole, il che non sorprende se si considera la crescente aspettativa di tassi «più alti più a lungo» e il relativo ammorbidimento dell’inversione della curva dei rendimenti.
Queste condizioni costruttive restano tuttavia sempre esposte al rischio di uno shock esogeno.
In questo momento ci si interroga sui limiti del programma di acquisti della Bank ok Japan nel sostenere il livello dello yen, se la People’s Bank of China deciderà di svalutare lo yuan e, naturalmente, sui diversi rischi geopolitici che potrebbero rapidamente intensificarsi fino a dominare il processo decisionale degli operatori di mercato.
A nostro avviso, però, è più probabile che a minare la narrazione ottimistica sia un graduale cambiamento dei fondamentali sottostanti dell’economia.
Crediamo che il rischio più credibile sia una combinazione di crescita più debole e inflazione più persistente.
Nessuna delle due deve essere per forza dirompente per produrre effetto.
Sembra tuttavia possibile che l’attuale periodo di utili insolitamente elevati inizi a esaurirsi dato che le aziende devono affrontare costi di finanziamento più elevati: il rifinanziamento del debito delle imprese è stato in gran parte sospeso nel 2023, in quanto i tassi erano elevati, ma ci si aspettava fino a sette tagli dei tassi nel 2024; la tesi di «tassi più alti, più a lungo» ha cambiato questa dinamica e il rifinanziamento del debito a tasso fisso a un nuovo tasso più alto potrebbe deprimere gradualmente i flussi di cassa delle imprese – e quindi la crescita economica – nei prossimi 18 mesi.
L’aspetto dell’inflazione è più complicato, ma diversi fattori suggeriscono che mantenere l’inflazione all’obiettivo o al di sotto sarà più difficile ora rispetto al periodo pre-Covid.
La pressione sulla spesa pubblica in settori quali la difesa, la decarbonizzazione e la correzione delle disuguaglianze di reddito fra i cittadini è inoltre ora più forte rispetto agli anni 2010: questo potrebbe fungere sia da stimolo fiscale sia da volano per l’inflazione.
Se tutto questo è vero, è difficile sostenere che nel lungo periodo i rendimenti azionari e obbligazionari saranno superiori alla media o almeno così forti come negli ultimi 15 anni.
Tuttavia, queste nuove condizioni dovrebbero essere accolte con favore in un sistema economico sano: le politiche di tassi zero e l’aumento del debito pubblico che hanno sostenuto la crescita degli investimenti per gran parte degli ultimi 15 anni sono in qualche modo in contrasto con i principi chiave del capitalismo.
Per un’economia che funziona bene sono necessari costi di finanziamento reali positivi, politici responsabili e, in ultima analisi, una distruzione creativa che prende la forma di vincitori e vinti fra le aziende.
In prospettiva, monitoriamo con attenzione i dati economici, in particolare i segnali di stress nell’interazione tra la partecipazione della forza lavoro, l’inflazione salariale, la salute delle aziende (misurata dagli utili e dal tasso di insolvenza) e gli indicatori anticipatori dell’indice dei prezzi al consumo (cpi) da qui a 6-12 mesi.
Altri game changer per la narrazione del mercato sono: azioni politiche o di banche centrali inattese, non ultima da parte della People’s Bank of China, che potrebbe svalutare lo yuan.
Ricordiamo bene l’esperienza dell’agosto 2015, quando la svalutazione cinese ha iniettato una dose di volatilità in un mercato azionario pluriennale altrimenti rialzista.