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Ecco i danni collaterali della lotta all’inflazione | L’analisi

Sradicare l’inflazione? Sì, ma quali sono le conseguenze? Da un lato, la lotta all’inflazione è necessaria affinché la gente non perda la fiducia nel valore del denaro. Dall’altro, il ritorno a tassi d’inflazione più bassi non è mai indolore, ma generalmente è meno doloroso combattere l’inflazione che lasciarle fare il suo corso. Resta il fatto che nessuno sa per certo quanto le banche centrali possano effettivamente aumentare i tassi d’interesse e ridurre i propri bilanci prima che la lotta all’inflazione rischi di trasformarsi in accanimento terapeutico, con gravi danni collaterali al sistema finanziario.

Lo afferma Bert Flossbach, co-fondatore di Flossbach von Storch, puntualizzando che per la prima volta da decenni, molti Stati devono confrontarsi con un aumento significativo dei costi degli interessi. Nel 2021, i Paesi della zona euro hanno sostenuto interessi passivi per 180,3 miliardi di euro. In realtà, rispetto a un debito pubblico complessivo di 11,7 miliardi di euro, si tratta di un onere medio per gli interessi di appena l’1,5%. Se i rendimenti di mercato dovessero rimanere al livello attuale, in pochi anni, a parità di debito, la spesa per interessi raddoppierebbe, anche se gradualmente.

Alla fine dello scorso anno, il debito pubblico italiano aveva una durata media residua di 7,7 anni. La spesa per interessi relativa al 2022 dovrebbe ammontare a poco meno di 70 miliardi di euro, il che si traduce in un tasso d’interesse medio di circa il 2,5 %. Attualmente, il rendimento di mercato delle obbligazioni italiane è di circa il 4% (media su tutte le scadenze). Perciò, se i rendimenti dovessero rimanere così alti nel lungo termine, la spesa annua per interessi dell’Italia salirebbe di circa 40 miliardi di euro avvicinandosi ai 110 miliardi, ipotizzando un livello di debito invariato.

«Non sorprende quindi che le critiche più aspre alla politica antinflazione della Bce provengano proprio dall’Italia», puntualizza Flossbach. A ogni modo, la sostenibilità del debito della maggior parte degli Stati non sembra in grave pericolo, in quanto l’inflazione gonfia automaticamente anche la performance economica e le entrate fiscali. Per chi ha un mutuo invece questo effetto di compensazione non esiste o, se c’è, è comunque limitato.

Quanto più breve è il periodo di applicazione di interessi fissi, tanto più incisivo è l’effetto di un incremento dei tassi d’interesse. Mentre le famiglie tedesche hanno prevalentemente prestiti immobiliari a lungo termine, nel Regno Unito circa un mutuo su cinque è a tasso variabile. Al restante 80% dei crediti si applica un tasso d’interesse fisso per un arco di tempo breve, che per circa due milioni di mutuatari britannici finirà già quest’anno. Attualmente, il tasso di interesse per i mutui ipotecari a 2 e 5 anni è di ben il 5%. Un anno fa era solo dell’1,6%.

Quando e in che misura tutto questo si tradurrà in inadempienze sui prestiti ipotecari, si vedrà nei prossimi trimestri. In ogni caso, la Bank of England dovrà monitorare l’impatto di ulteriori aumenti dei tassi d’interesse sull’esigibilità dei crediti ipotecari e quindi sulla solvibilità dell’intero settore bancario. Non si prospetta nulla di buono nemmeno per le aziende fortemente indebitate, che nei prossimi anni dovranno rifinanziare prestiti o obbligazioni in scadenza. Questo vale soprattutto per le cosiddette “società zombie” che in passato sono riuscite a sopravvivere solo grazie ai bassi tassi d’interesse. Anche le aziende orientate alla crescita ma non redditizie, che stanno lentamente esaurendo il risparmio accumulato, risentono dell’aumento dei tassi d’interesse e dei premi al rischio.

Inoltre, è diventato più difficile ottenere capitale in borsa o da società di venture capital, mentre i finanziamenti di capitale sono sempre più costosi. In realtà, questa dinamica riflette un sano consolidamento del mercato, che le banche centrali sembrano essere disposte ad accettare nella loro lotta all’inflazione. C’è però un altro problema più grave: la crescente mancanza di liquidità. Se da un lato le banche centrali vogliono ridurre progressivamente i loro portafogli di obbligazioni, vendendole sul mercato, dall’altro gli Stati intendono continuare a contrarre nuovi debiti netti in quantità elevate. Questa dinamica si ripercuote anche sulla domanda di obbligazioni societarie, i cui premi al rischio finiranno per aumentare, rendendo più costoso il rifinanziamento delle imprese.

In autunno, il forte aumento dei tassi d’interesse sui Gilt britannici aveva già costretto la Bank of England a modificare temporaneamente la propria politica monetaria, perché i prezzi dei Gilt erano scivolati in un pozzo senza fondo. Anche l’economia reale sta risentendo dell’aumento dei tassi d’interesse. Lo si vede chiaramente, ad esempio, nel settore edile, dove il numero di nuovi appalti è drasticamente diminuito. In definitiva però a poco serve chiedersi se e dove si verificherà una recessione, quanto sarà profonda e quanto potrà durare. Le banche centrali dovranno limitarsi ad accettarla come conseguenza di una politica monetaria restrittiva, se vogliono deprimere la domanda a tal punto da arrestare la parabola ascendente dei prezzi, conclude Flossbach.

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