“È impossibile che Giorgia Meloni non abbia capito che la riforma del premierato così come è stata fin qui elaborata e proposta dal governo non va, non funziona proprio”. Così Angelo Panebianco sul Corriere della Sera chiedendosi “perché allora si ostina a sostenerla in questa forma, perché non introduce i correttivi che ne farebbero un progetto credibile e, probabilmente, vincente? Al momento, plausibilmente, non ritiene di poter fare questo passo perché non vuole correre il rischio di destabilizzare la maggioranza di governo.
Si immagina però che Meloni abbia ben chiaro il fatto che se, a elezioni europee avvenute, quei correttivi non ci saranno, allora ella si troverà a rischiare grosso in un eventuale, probabile, referendum costituzionale. Se la riforma non cambiasse in meglio è facile immaginare quali sarebbero gli schieramenti nel referendum costituzionale. Ci sarebbe l’opposizione intransigente dei soliti noti, quelli che «non si tocca la Costituzione nata dalla Resistenza», quelli che «la nostra è la Costituzione più bella del mondo». Dall’altra parte, certo, ci sarebbero il governo e la sua maggioranza. Il loro punto di forza – sottolinea l’editorialista – starebbe nel fatto che a tanti italiani piace l’idea di eleggere direttamente i governanti. Il principale punto di debolezza consisterebbe nelle crepe al loro interno.
Ma se la riforma sottoposta a referendum mantenesse la forma attuale, ci sarebbe anche — e sarebbe un guaio per Meloni — un terzo gruppo. Composto da coloro che, da un lato, sarebbero ben lieti di stappare bottiglie di champagne se i fan della «Costituzione più bella del mondo» (i conservatori costituzionali) venissero sconfitti, se fosse possibile finalmente superare la forma di governo attuale ma che, dall’altro lato, non potrebbero votare a favore di una riforma mal concepita e mal congegnata. Lo sbaglio di Meloni potrebbe essere quello di ignorare la necessità di, si perdoni il bisticcio, riformare la sua proposta di riforma.
D’altro canto gli sbagli dei conservatori costituzionali sono tanti. Il principale è che l’Italia si è potuta permettere una forma di governo che favoriva l’instabilità e la breve durata degli esecutivi quando navigavamo in acque internazionali tranquille. Oggi rullano da ogni parte i tamburi di guerra e le tempeste in atto non sembrano destinate a placarsi. Alla democrazia – conclude – servono esecutivi stabili”.