Prima della pandemia lo smartworking in Italia era riservato a pochi lavoratori, con il Covid c’è stato un balzo in avanti senza precedenti, che avrebbe richiesto secoli per essere eguagliato. Lo spiega il sociologo, Domenico De Masi, confrontando i dati emersi prima e dopo l’emergenza sanitaria.
«L’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano ha calcolato che, subito prima della pandemia, in Italia telelavoravano solo 570mila persone. Praticamente eravamo il fanalino di coda in Europa, soprattutto rispetto a Inghilterra, Germania e Francia. Scoppiata la pandemia, sotto la spinta di un paio di DPCM, in pochi giorni i telelavoratori sono schizzati a 6,58 milioni. Senza la pandemia, continuando con i ritmi precedenti, questo traguardo avrebbe richiesto 210 anni e sarebbe stato raggiunto nel 2230».
«Dunque la pandemia ha costretto le imprese e la Pubblica Amministrazione a sperimentare su vasta scala il lavoro a distanza che poi ha contribuito in misura determinante a salvare la salute, l’economia, la scuola, i servizi e l’ambiente» spiega De Masi su InPiù.net. «Smart significa intelligente. Ma non basta cambiare il posto perché un lavoro diventi intelligente. Tuttavia, si tratta di un primo passo nella rivoluzione epocale per cui sta cambiando radicalmente la natura stessa del lavoro. In diecine di organizzazioni la sperimentazione forzata dello smart working è stata accompagnata da scrupolose ricerche per monitorarne gli effetti».
«La stragrande maggioranza dei capi intervistati ha dichiarato che la produttività complessiva è aumentata; la stragrande maggioranza dei dipendenti si è detta ben disposta a proseguire con lo smart working anche dopo la pandemia. Centinaia di imprese hanno colto l’occasione per modernizzare i loro sistemi e stipulare i relativi contratti. Sempre secondo il Politecnico di Milano, nelle organizzazioni che hanno applicato il lavoro a distanza la produttività è aumentata del 10%, i costi vivi per gli immobili sono calati tra il 30 e il 50%, senza contare il miglioramento dell’impatto ambientale e l’aumento dell’inclusione».
«Nella Pubblica Amministrazione, dove lavorano 3,2 milioni di persone, in gran parte con mansioni telelavorabili, la ministra Dadone (donna, giovane e digitale), rimasta in carica fino al 13 febbraio 2021, ha colto l’insperata occasione e, nel dubbio se mettere i dipendenti pubblici in cassa integrazione o in smart working, ha saggiamente optato per questa seconda alternativa. I risultati, al contrario di quanto si è detto, sono stati eccellenti. Ad esempio, mettendo in lavoro agile il 97% del suo personale, l’Inps è riuscita a smaltire 6,4 milioni di pratiche relative alla Cig laddove, prima della pandemia, ne evadeva solo 800mila» prosegue.
«La Dadone aveva deciso che, dopo la pandemia, almeno il 50% dei dipendenti pubblici avrebbero dovuto proseguire con il lavoro a distanza. Invece Renato Brunetta, suo successore dal 13 febbraio, ha annunziato che nella PA i telelavoratori non dovranno superare il 15% adducendo a giustificazione che mancano ancora i contratti, gli obiettivi e le tecnologie».
«Ma proprio queste lacune il Ministro avrebbe dovuto colmare nei 7 mesi che ha avuto a disposizione, proseguendo l’opera avviata dalla ministra precedente», conclude. «Poiché, come attestano numerose ricerche, con lo smart working aumenta la produttività e se le imprese private adotteranno questa modalità di lavoro più della PA, il risultato delle politiche lavoristiche di Brunetta sarà un aumento del gap negativo della macchina dello Stato rispetto alle imprese private».
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