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Lorenzo Bini Smaghi (ex membro comitato esecutivo Bce): «L’UE rischia la recessione, ma le nostre banche sono solide»

Dieci anni dopo il «Whatever it takes» di Mario Draghi, il piano per riformare l’Italia si è fermato al Senato con un voto di sfiducia. Mentre l’inflazione nell’eurozona è salita quasi al 9% e la Bce ha posto fine all’era dei tassi di interesse negativi, lo spread rialza la testa. Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del comitato esecutivo della Bce, analizza con Milano Finanza l’attuale scenario in Europa, teatro della guerra in Ucraina, e in Italia. Domanda.

Professor Bini Smaghi il whatever it takes di Mario Draghi compie dieci anni: serve ancora difendere l’area euro?

«Negli ultimi dieci anni l’Eurozona si è rafforzata, diventando più coesa, in particolare attraverso la creazione di una vigilanza bancaria unica e l’inizio di un bilancio comune, attraverso il Next Generation Eu. C’è però ancora molta strada da fare e non si possono escludere shock che mettano a repentaglio la coesione del sistema. Per questo motivo lo strumento dell’Omt, creato dopo il whatever it takes, è ancora utile».

Sotto la guida di Lagarde la Bce ha alzato i tassi e varato un nuovo Qe molto condizionale, come lo giudica: servirà a spegnere lo spread in vista delle elezioni e della formazione del prossimo governo italiano?

«La restrizione monetaria era necessaria perché con una inflazione in aumento i tassi a zero non erano più sostenibili. Siamo comunque ancora su livelli di tassi molto bassi. Quanto al nuovo scudo anti-spread, la condizionalità è molto più facile da rispettare rispetto allo strumento varato ai tempi di Draghi. Nei fatti l’Italia oggi rispetta tutte le condizioni, purché continui con delle politiche coerenti con quelle messe in atto nell’agenda Draghi. Sarei invece preoccupato se dalla campagna elettorale emergessero delle divergenze sostanziali, che ci porterebbero a non rispettare più quelle condizioni, sia in termini di finanza pubblica che di Pnrr».

Lei ha una grande esperienza da banchiere centrale, l’Eurotower può fare davvero qualcosa contro un’inflazione che viaggia quasi al 9%?

«L’inflazione è in gran parte importata. Tuttavia, se la politica monetaria rimane troppo espansiva, di fatto agevola il passaggio all’inflazione interna e rende poi più difficile riportarla sotto controllo. In ogni caso, il rallentamento dell’economia mondiale, previsto per la seconda metà dell’anno, dovrebbe gradualmente far rallentare i prezzi. Lo si vede già su alcune materie prime».

L’Italia non riesce a tagliare il debito, non dovrebbe varare un piano speciale per mettersi al riparo da nuovi attacchi speculativi?

«La sostenibilità del debito dipende da tre fattori principali: il livello del debito, la solidità dei conti e la crescita economica. Qualsiasi piano deve affrontare tutti e tre i problemi. Il Portogallo, ad esempio, che ha un rating come il nostro (BBB), ha uno spread più basso perché la crescita di medio periodo è più sostenuta e dimostra di controllare meglio la spesa pubblica, anche grazie a una maggior stabilità politica».

Come stanno le banche italiane ed europee in questo momento, necessitano di ricapitalizzazioni?

«Il sistema bancario europeo, e quello italiano, sono meglio equipaggiati per affrontare un rallentamento economico. Hanno una maggior solidità patrimoniale e una più efficiente gestione del rischio. Ciò è particolarmente vero per le banche sistemiche, sotto la vigilanza della Bce. Non c’è bisogno di ricapitalizzazioni oggi, ma semmai di assicurare che il capitale investito nelle banche possa essere adeguatamente remunerato, come in altri settori».

In Europa mancano ancora l’unione bancaria e l’unione fiscale, lei considera che prima o poi ci si arriverà?

«Manca anche un mercato dei capitali europeo integrato, che renderebbe più facile l’attuazione di una vera unione bancaria. A parole tutti sono a favore, inclusi i governi, ma nella realtà molti si oppongono, a cominciare dalle autorità nazionali e di molti operatori esteri, che preferiscono scegliersi le proprie autorità di supervisione nazionali piuttosto che trovarsi di fronte ad una autorità europea forte. Con questa frammentazione, tuttavia, non riusciremo a finanziare le ambizioni europee, nel campo delle infrastrutture, della transizione ecologica, del digitale. Qui è in gioco la competitività dell’Europa rispetto agli Stati Uniti e alla Cina».

A cinque mesi dallo scoppio della guerra, mezzo mondo rischia la recessione. Nonostante le sanzioni alla Russia di Putin, chi sta vincendo il conflitto in Ucraina, dal punto di vista economico?

«L’Occidente è in effetti a rischio recessione, soprattutto l’Europa, ma ciò dovrebbe essere temporaneo se nel giro di qualche trimestre si riuscirà a ridurre la dipendenza energetica dalla Russia. La Russia invece si trova già in recessione oggi e i dati mostrano che la sua capacità produttiva è in seria difficoltà, inclusa quella degli armamenti. L’obiettivo delle sanzioni è proprio quello di evitare qualsiasi possibilità per la Russia di ripetere ciò che ha fatto in Ucraina con altri Paesi vicini, europei o meno. Il crollo delle importazioni russe, anche da Paesi terzi come la Cina, dimostra che l’impatto delle sanzioni è molto più ampio del previsto».

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