Nell’età di Internet – scrive su Repubblica Marco Belpoliti commentando la vicenda dei dossieraggi – lo spionaggio viaggia attraverso i super silenziosi archivi informatici dove ciascuno di noi ha depositato i propri dati sensibili: conti bancari, informazioni sanitarie, fiscali, previdenziali ed e-mail.
Non è più necessario origliare i discorsi, come avveniva all’epoca in cui il tiranno di Siracusa, Dionisio, usava il cosiddetto “orecchio” per ascoltare i discorsi dei prigionieri e carpirne i segreti.
L’evoluzione tecnologica fa sì che ciascuno di noi lasci evidenti e continue tracce di sé in ogni luogo dove passa, e i luoghi non sono più quelli fisici, bensì immateriali, che raggiungiamo con il computer, lo smartphone, i tablet, le carte magnetiche e altri strumenti similari.
Se anni fa il nome dell’orecchio elettronico era Echelon, mitica centrale d’ascolto e registrazione di tutto, oggi non è più necessario evocare centri sovranazionali per catturare notizie e informazioni, ma basta una società tutta italiana d’investigazioni che recherebbe, a quanto riferiscono i magistrati, il nome di “Equalize”, la cui traduzione è: “pareggiare, uguagliare”.
Il tema della sicurezza è antico come l’umanità, se anche Jhavè ascolta quello che fanno e dicono Adamo ed Eva nell’Eden, come scrive il musicologo e filosofo francese, Peter Szendy, in Intercettare. Estetica dello spionaggio (Isbn edizioni).
Certo in una epoca d’avanzata secolarizzazione nessuno pensa più che un essere sovrannaturale ci stia ascoltando, e tuttavia l’orecchio delle spie è divinamente onnipresente.
Come potremo difenderci dalla società dell’“ascolto totale” in cui viviamo?
Non è facile. Non ci è riuscito nessuno, neppure Unabomber, isolato senza telefono e cellulare in una capanna nel Montana.
Come ha scritto il fondatore della moderna sociologia Georg Simmel in suo saggio del 1906: “Un segreto noto a due persone non è più un segreto”.
La lotta per il segreto è cominciata da un po’, e presumibilmente è senza fine.