La legge Calderoli sull’Autonomia differenziata trae origine dall’intenzione di alcune regioni del Nord Italia di trattenere all’interno del proprio territorio una quota maggiore di risorse fiscali che da quello stesso territorio hanno avuto origine. Non è però affatto ovvio che questo concetto prevalga nella concreta applicazione della legge, dal momento che in ogni regione dovrebbero essere garantiti i LEP (livelli essenziali delle prestazioni), e non è detto che nel corso del tempo le regioni del Nord riescano ad accumulare più risorse in eccesso (in rapporto ai LEP) rispetto a quelle del Sud (tramite maggiore crescita economica o maggiore efficienza della spesa) e, nel caso, riescano effettivamente a trattenerle sul proprio territorio, a fronte di uno stato centrale che verosimilmente dovrà preoccuparsi di attuare un qualche criterio di equità nella distribuzione delle risorse fra regioni.
Il motivo principale per il quale il cammino è accidentato è che nell’iter di approvazione della legge le ragioni del Mezzogiorno e della perequazione a favore delle regioni svantaggiate si sono fatte sentire con forza, anche all’interno della maggioranza di governo.
Ma vi è un altro motivo che ha giocato un ruolo importante e che continuerà a pesare in futuro. Maggiori risorse alle regioni del Nord comportano o un maggior deficit aggregato del sistema Italia (il che non è sostenibile) oppure una sottrazione alle altre regioni (il che è molto difficile da immaginare). Insomma, come spesso accade, non si capisce chi pagherebbe il conto. Se si applicasse in maniera rigorosa un principio di federalismo finanziario, lo stato non potrebbe appropriarsi delle eventuali risorse in eccesso che si accumulassero in qualche regione; ciò che invece avviene attualmente, dato che lo stato ha saldamente in mano la cassa e ogni anno la centellina alle regioni e alle altre autonomie locali, avendo ben presente la situazione dei conti pubblici. In sostanza, un sistema centralizzato può non essere efficiente perché deresponsabilizza gli amministratori locali, ma rassicura il ministro dell’economia (e i mercati) riguardo alla tenuta dei conti. Inoltre, il Pil aggregato di tutte le regioni del Mezzogiorno è piccolo rispetto a quello dell’intero paese: meno del 22%. Il che comporta che ogni punto percentuale di Pil del Centro-Nord corrisponde a 3,5 punti di Pil del Mezzogiorno.
Se dunque le regioni del Nord riuscissero a coalizzarsi per ridurre l’ammontare dei trasferimenti verso il Sud avrebbero un pool di risorse molto scarso a cui attingere, a meno di ipotizzare dei veri e propri disastri nei servizi delle regioni meridionali.