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Il potere debole e isterico di Macron | L’analisi di Luigi Balestra

La Francia, da qualche tempo in rivolta contro la riforma delle pensioni concepita da Macron, esce scioccata dalla decisione del Governo di avvalersi del potere contemplato nell’art. 49, comma 3 della Costituzione.

Il Primo ministro può, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, impegnare la responsabilità del Governo in merito a un progetto di legge in materia di finanza o di finanziamento della previdenza sociale. Nel qual caso, il testo di legge si considera approvato dall’Assemblea nazionale senza necessità di un voto da parte dei deputati (salvo che una mozione di censura, depositata nelle ventiquattr’ore successive, non venga approvata).

L’attuale Primo ministro francese Elisabeth Borne, in carica dal 16 maggio 2022, in soli dieci mesi di governo ha utilizzato il «potere di scavalco» delle prerogative dell’Assemblea nazionale per ben undici volte. Dal 1959 ad oggi solo Michel Rocard lo ha utilizzato di più: ventotto volte nei tre anni di mandato 1988-1991, per cui la Borne – se dovesse seguitare lungo la scia intrapresa – rischia di passare alla storia come il Primo ministro il cui governo vi avrà fatto maggiormente ricorso. Per contro, nel passato anche recente alcuni dei Primi ministri succedutisi non lo hanno mai utilizzato, mentre altri ne hanno fatto un uso assai cauto.

Questo perché si tratta di un «atto di forza» che, in quanto tale, deve indurre a un utilizzo improntato a grande prudenza e moderazione. L’obliterazione della volontà parlamentare – peraltro, come è nel caso in questione, in relazione a una legge particolarmente impattante sulla vita delle lavoratrici e dei lavoratori – altera l’ordinaria dialettica democratica. Si spiega dunque come esso possa trovare fondamento solo in circostanze che oggettivamente giustifichino siffatta alterazione.

La maggior parte dei francesi, a quel che emerge da alcuni sondaggi, era ed è convinta della necessità di intervenire sulla materia, in quanto consapevole della necessità di garantire la sostenibilità futura dell’intero sistema pensionistico (problema comune a tanti altri Paesi). I francesi però, non appena è stata resa pubblica, hanno subito puntato il dito contro la riforma Macron, in quanto assolutamente contrari ai due capisaldi sui cui essa si fonda: innalzamento dell’età minima pensionabile (da 62 anni a 64 una volta che riforma sarà nel 2030 a regime) e aumento degli anni di contribuzione.

Questa contrarietà ha decretato una rivolta nelle piazze che si sta realizzando con proteste dai toni vibranti. Le manifestazioni di sabato scorso null’altro hanno concretizzato se non l’ennesimo sabato di protesta dei francesi, ai quali va riconosciuta la paternità di un diffuso sentimento di indignazione ogniqualvolta il decisore pubblico si faccia portatore di scelte non condivise dal basso.

La convinzione espressa da molti è che la riforma scatenerà una crisi sociale impattante. Nuove proteste sono già calendarizzate, i sindacati stanno chiamando a raccolta, con un’attività di sensibilizzazione che riguarda anche la comunità degli studenti, esortata a solidarizzare con i settori in sciopero e a organizzare assemblee studentesche.

Al tempo stesso è sotto gli occhi di tutti la crisi istituzionale, i cui tratti salienti si sono manifestati, nella loro virulenta espressività, giovedì scorso in occasione dell’intervento della Primo ministro all’assemblea nazionale. È verosimile ritenere che le mozioni di censura presentate e su cui si voterà oggi, tenuto conto della necessità che su di esse converga la maggioranza dei componenti dell’assemblea, non verranno approvate, ma ciò non toglie che una frattura – verrebbe da dire insanabile – si stia consumando.

È giusto quindi porsi una domanda, nonché trarre un insegnamento da questa complicata situazione. La domanda è cosa possa aver spinto l’Esecutivo (e Macron) a obliterare – peraltro con un annunciato coup de théâtre andato in scena pochi minuti prima del voto in assemblea – non soltanto la volontà dei deputati – i quali nel caso di specie non sarebbero stati dalla parte del Governo –, ma anche quella delle piazze. Una riforma di questa portata avrebbe richiesto un adeguato percorso, fatto di condivisione e, prima ancora, di comunicazione e di spiegazione delle ragioni alla base di una scelta che impone vistosi sacrifici. Invece il governo francese l’ha concepita e varata in un arco temporale brevissimo, adducendo sì l’impossibilità di fare altrimenti al fine di garantire la tenuta del sistema, ma senza darsi carico di un’attività di preparazione che potesse attenuare reazioni e conflitti.

La risposta alla domanda potrebbe allora essere: l’assenza di strategia politica. Per cui il Governo, a fronte della reazione delle folle e della sua stessa maggioranza, temendo di non poter più fuoriuscire dall’impasse in cui si era cacciato, ha impresso una inusitata accelerazione al processo di approvazione della legge, realizzando un atto impositivo. Una sorta di reazione isterica, scaturita dall’assenza di lucidità.

L’insegnamento: è compito della politica dar corpo alle istanze e ai bisogni che nascono dal basso, provenienti dalla collettività degli individui. A fronte di queste richieste, al decisore spetta la selezione di siffatte istanze sulla base della meritevolezza delle medesime. Il tutto giusto un approccio che deve sempre guardare alla realizzazione dei diritti fondamentali degli individui, in una prospettiva di realizzazione dell’interesse generale e del benessere della ogni individuo; e, ovviamente, in conformità alla corretta ed efficiente allocazione della spesa pubblica (vale a dire del denaro che i cittadini versano allo Stato in virtù degli obblighi fiscali, contributivi, ecc.).

Si tratta di un meccanismo complesso. Epperò i cittadini – ed in questo sovente un errore di fondo commesso dalla politica – non possono essere considerati come meri destinatari di decisioni provenienti dall’alto e a prescindere da ogni forma di interlocuzione. Ci si deve dar carico di intessere dialoghi proficui quanto meno con tutte quelle organizzazioni e/o gruppi che siano in qualche modo rappresentativi di quel che nel contesto sociale si agita. Di qui la necessità di una (ri)valorizzazione delle comunità intermedie, all’interno delle quali la discussione è in grado di fondare un pensiero idoneo a fornire prospettive e vie d’uscita anche a vantaggio dei decisori. La forza di un potere formalmente riconosciuto, ovvero quella dei numeri derivanti dall’essere maggioranza, quando non accompagnata da processi tesi a creare condivisione, conduce sovente all’adozione di soluzioni miopi, finendo con l’acuire irrimediabilmente l’ormai imperante disagio sociale. Con tutto quel che, in termini di corollario, da una cotale perniciosa situazione può scaturire

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