Paolo Mieli sul Corriere della Sera cerca di entrare nel merito delle accuse della corte dell’Aia a Israele: “Il Sudafrica – scrive Mieli – nell’accusare Israele al cospetto della Corte internazionale di giustizia dell’Aia per il comportamento tenuto a Gaza negli ultimi cento giorni, avrebbe potuto restringere il campo a quelle che anche molti Paesi che guardano ad Israele senza ostilità hanno definito «gravi violazioni del diritto umanitario».
Ma ha deciso di compiere un passo in più su cui—a parere di chi scrive —non ci si è soffermati a sufficienza. Pretoria, assieme alle capitali che ad essa si sono associate nella compilazione del dossier accusatorio (prime tra tutte Ankara e Kuala Lumpur), ha inteso dare contorni più precisi all’affermazione del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres secondo il quale l’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso «non è avvenuta nel vuoto». Ha voluto rendere, per così dire, più chiaro il contenuto di quel «non vuoto». Il ministro della Giustizia sudafricano, Ronald Lamola, nell’istruire la squadra ha sostenuto che l’opera di distruzione contro i palestinesi «dura da 76 anni».
Far risalire, sia pure obliquamente, la condotta genocida all’«occupazione israeliana del 1948» – spiega Mieli – equivale a fissare come obiettivo (del mondo intero) la fine di quell’«occupazione». E ad offrire una patente di legittimità a chiunque si batta, anche nei modi più sanguinosi, contro gli occupanti del ‘48. Verrà poi il tempo in cui verseremo lacrime per qualche atto particolarmente efferato, nelle stesse modalità con cui adesso noi tutti talvolta eccepiamo al bombardamento di Dresda (15 febbraio 1945). Ma quando ci si batte contro un «occupante» che per di più è in procinto di compiere o sta commettendo un «genocidio», non si può andare troppo per il sottile.
Qui non si tratta soltanto di fermare la guerra di Gaza. Ma di mandare un segnale al mondo intero. Nei confronti di chi — con modalità riconducibili alla sua stessa nascita (il fatidico 1948) — si rende responsabile di una pulizia etnica a carattere genocida, è consentita ogni forma di lotta. Il «genocidio», dopo il 1948 – conclude – è stato preso in considerazione solo per circostanze di evidenza macroscopica come i casi dell’ex Jugoslavia, del Rwanda, della Cambogia e pochi altri”.