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[L’Intervista] Gianluca Ansalone (Head of Public Affairs in Novartis Italia): «Grazie alla ricerca, dopo dieci mesi dalla pandemia abbiamo già il vaccino»

Gianluca Ansalone è Head of Public Affairs in Novartis Italia e con lui abbiamo parlato del rapporto tra i cittadini e la scienza, dell’importanza della ricerca evidenziata durante questo periodo di pandemia e delle condizioni necessarie perché nel futuro ci sia una diffusione sempre più ampia della cultura scientifica

Dr. Ansalone, lei ha dichiarato più volte che “negli ultimi anni si è rotto il rapporto di stretta fiducia tra cittadini, istituzioni e mondo della scienza”. E che è “importante che il rapporto di fiducia cittadini-istituzioni, e soprattutto tra cittadini e scienza, venga ricostruito”, “perché l’alfabetizzazione scientifica è fondamentale per un pieno diritto di cittadinanza”. Cosa si può fare e chi, nei propri ambiti, deve farlo?

Veniamo da anni in cui le pulsioni anti-scientifiche si sono fatte politica, sono entrate nelle Istituzioni, minando un concetto fondamentale delle società moderne: il riconoscimento della competenza. Ci siamo lamentati dell’assenza di merito in molti ambiti pubblici e privati ma abbiamo assecondato la demolizione sistematica del sapere. Fino al paradosso per il quale industria e politica, se dialogano, è solo per tramare alle spalle dei cittadini; o che i cittadini non riconoscono più alcuna autorevolezza alla politica o alla scienza. Alla base della democrazia c’è sempre innanzitutto un patto di fiducia.

Questa pandemia ci offre l’opportunità di rimettere al centro il valore della competenza e ricostruire il rapporto di fiducia tra Stato, cittadini e scienza. Da parte nostra, metteremo tutto l’impegno possibile per non disperdere questa lezione. Abbiamo già avviato un programma di diffusione della cultura scientifica rivolto soprattutto ai più giovani, assieme al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Ministero dell’Università e Ricerca. Vogliamo contribuire a formare una generazione di cittadini più consapevoli e meglio informati, in grado in futuro, semmai ce ne sarà bisogno, di compartecipare alle scelte cruciali del Paese anche quando e se saremo in condizioni di emergenza.

Tornando al tema sanità, lei ha definito la ricerca come una “nuova frontiera dello sviluppo in un mondo, quello della salute, che sta cambiando enormemente”. Può delineare i contorni di questo cambiamento? Il sistema Italia è pronto a recepire in pieno l’ondata di innovazione già in corso in tutto il mondo, che è l’anticipo di quella ancora più forte in arrivo?

Sarebbe perfino banale ricordare i successi della ricerca in un momento nel quale iniziamo a vaccinarci contro il Covid ad appena dieci mesi dalla deflagrazione della pandemia. L’innovazione in medicina era già un trend consolidato prima di questa crisi: genomica, terapie cellulari e geniche, medicina personalizzata e utilizzo delle nuove tecnologie, in particolare l’intelligenza artificiale, sono già qui. Si tratta, come per altri settori, di creare tutte le condizioni perché questa rivoluzione atterri innanzitutto da noi. Io vengo da una formazione geopolitica. So quanto da sempre i territori e gli Stati competono per attrarre risorse , talenti, investimenti. La competizione, nel mondo post-Covid, si allargherà e crescerà ulteriormente.

Il nostro sistema, spiace dirlo, è fermo a qualche decennio fa. Ha mantenuto (e dovrà continuare a farlo) saldi i valori, ad esempio quelli sanciti dalla Costituzione, e di questo va dato pieno merito; ma non ha aggiornato gli strumenti. Nel mondo degli algoritmi noi ragioniamo ancora con un sistema binario: sano o malato. Senza pensare che la cura non è solo una splendida notizia per chi può lasciarsi alle spalle la sofferenza ma lo è per tutta la collettività, che potrà beneficiare del ritorno alla vita attiva, sociale, civile ed economica di quella persona.

Cosa ha insegnato e insegna, nell’ottica degli argomenti che abbiamo finora toccato, la pandemia da Covid-19?

Innanzitutto che è arrivato il momento di trattare la farmaceutica come una politica industriale strategica. L’Italia è prima in Europa per valore della produzione destinata all’export, ogni euro investito in questo comparto ne genera circa tre in termini di valore aggiunto, attorno alla farmaceutica si sviluppa ricerca, innovazione e buona occupazione, le applicazioni possibili del digitale sono sterminate e il settore sta già conoscendo quella transizione green di cui opportunamente si parla. 

La nostra proposta al Governo è di farne una delega ad hoc e costituire a Palazzo Chigi una cabina di regia dedicata. C’è un precedente molto confortante, la politica dell’aerospazio. Una delega conferita tipicamente al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per un settore che in dieci anni ha generato occupazione, ricerca, collaborazione tra pubblico e privato. Quest’anno debutterà a Palazzo Chigi il CIPES, il Comitato Interministeriale per la Programmazione economica rafforzato da analisi e valutazione di Sostenibilità. E’ quello il luogo ideale per una cabina di regia sulla politica delle scienze della vita e del farmaco.

Lei ha affermato che in Italia “non possiamo più guardare al sistema delle tutele, e a quello del welfare in generale, in maniera settoriale”. E che “occorre guardare agli investimenti in sanità in modo diverso”. Cosa intende esattamente e quali conseguenze ne vanno tratte sul piano concreto?

Intendo dire che le condizioni di salute o, sfortunatamente, di malattia non devono essere il modo in cui il sistema guarda ai propri cittadini. Non possiamo cioè separare il tema della tutela della salute da altri trend come ad esempio quello, irreversibile, del cambiamento demografico. L’Italia si avvia ad essere il Paese più longevo al mondo e anche quello con l’età media più elevata. Se ci vogliamo occupare della salute dei cittadini, sapendo che aumenterà inevitabilmente l’incidenza delle patologie croniche, dobbiamo pensare al modo in cui le cure saranno organizzate e dispensate ma anche a come questa condizione si incrocia con la sostenibilità del sistema pensionistico o alla formazione continua, sul lavoro e oltre il lavoro.

Nell’ultimo decennio per fare un esempio quasi quattro milioni di persone in meno sono state ricoverate in ospedale in Italia. Si è così evitato di perdere 20 milioni di giornate, con benefici per l’INPS, che ha risparmiato circa 250 milioni di euro per indennizzi e per le imprese che hanno ridotto le perdite di produttività. Tutto questo grazie al fatto che attraverso la digitalizzazione o i nuovi farmaci molti trattamenti possono essere somministrati in day hospital o a casa. Gli economisti le chiamano “esternalità positive”.

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