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Rapporto Draghi fra veti e debito comune | Lo scenario di Milano Finanza

Quel “debiti pubblici più alti diventeranno una caratteristica delle nostre economie”, pronunciato all’uscita dalla Bce nel marzo 2020, pareva un presagio.

Riletto col senno odierno, diventa un preludio al rapporto che Mario Draghi ha ufficialmente presentato il 19 settembre.

Rapporto che ruota su tre cardini: colmare il gap innovativo fra Europa, Usa e Cina; aumentare la competitività in una logica di decarbonizzazione (non facile); accrescere la sicurezza europea riducendo la dipendenza dalle potenze straniere.

Il dente dolente su cui batte la lingua di Draghi è però un altro.

L’attuazione di questi progetti – che il suo rapporto non inventa trattandosi di obiettivi già fissati dall’Ue – richiede un esborso prossimo agli 800 miliardi annui, fra il 4,4% e il 4,7% del pil europeo.

Dunque?

Dunque, investimenti privati a parte, serve un debito comune e – monito ripetuto a ridosso della presentazione – chi non lo accetta si oppone al futuro europeo.

Asserto indiscutibile che Draghi, come libero consulente, oggi può esprimere senza remore istituzionali.

Ma nella pratica?

Nella contorta pratica dei trattati europei, quel monito si scontra con il diritto di veto, cioè con regole che impongono l’unanimità di voto dei 27 Paesi su materie particolarmente delicate, dove si gioca il fragile equilibrio tra federalismo europeo e sovranità nazionali.

Giova un richiamo alle meccaniche deliberative dell’Unione, partendo da un distinguo fondamentale spesso frainteso: Consiglio dell’Unione Europea e Consiglio Europeo.

Il primo rappresenta i governi degli Stati membri e, su proposta della Commissione, predispone e approva le norme unioniste insieme al Parlamento.

A seconda dei casi, delibera a maggioranza semplice (14 su 27 membri), a maggioranza qualificata (55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione) o all’unanimità, quest’ultima richiesta, fra le altre, per le faccende finanziarie.

Al contrario, il Consiglio Europeo, nato informalmente e istituzionalizzato dal 2009, è composto dai capi di Stato o di governo e delibera all’unanimità (salvi casi di astensione che non paralizzano la decisione).

Per superare il blocco del veto occorre intervenire sulla procedura di modifica dei trattati, regolata dall’articolo 48 del trattato Ue.

Funziona così: il progetto di modifica passa a maggioranza semplice per convocare una conferenza del Consiglio Europeo, il quale approva per consenso una raccomandazione rivolta a una conferenza intergovernativa degli Stati (Cig).

A sua volta la Cig delibera all’unanimità le modifiche dei trattati, che poi necessitano della successiva ratifica da tutti gli Stati membri.

Insomma, se un governo si oppone, la modifica non passa.

In altri termini, il sistema deliberativo europeo è guastato da un congegno di veto che, in assenza di cooperazione spontanea, blocca qualsiasi processo decisionale su questioni vitali (esempi, anche recenti, abbondano).

Ecco perché il richiamo di Draghi mette all’indice questo meccanismo perverso.

In un interessante scritto («Abolire il diritto di veto – La riforma del sistema di voto nel Consiglio e nel Consiglio europeo», in Il Federalista, 2021), Giulia Rossolillo afferma la necessità di demolire il veto insieme a un cambiamento strutturale, che sostituisca la logica della cooperazione tra Stati con la creazione di un potere sovranazionale legittimato democraticamente, capace di agire indipendentemente dagli Stati.

Tradotto: trasformare il Parlamento Europeo (unico organo votato dai cittadini Ue) nel vero sistema deliberativo.

Del resto, nessuna federazione, associazione o impresa potrebbe esporsi allo stallo del veto, scaturigine della sua dissoluzione.

Draghi avverte che la mancata attuazione del piano renderebbe l’Europa, pur ricca di immense potenzialità di sviluppo, un luogo meno prospero, meno equo, meno sicuro, meno libero.

Concludo citando lo stesso autore del rapporto: «L’Europa vuole essere padrona del proprio destino o no?»

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