La recente decisione della Bce di riduzione del Tus (Tasso ufficiale di sconto), che anticipa quella attesa della Fed, sembra indicare un ritorno alla normalità per il mercato del credito.
Passata la tempesta pandemica e rientrati i successivi shock energetici, delle materie prime e l’ondata inflattiva – supportata dalle politiche monetarie espansive attuate dalla crisi finanziaria del 2008 – pur a fronte di tensioni geopolitiche in crescita, questa normalizzazione suggerisce un maggiore accesso e un minor costo dei finanziamenti per le pmi Italiane, con benefici effetti sulla crescita e sulla redditività.
La normalità domestica si inquadra tuttavia in un contesto di anormalità internazionale che suggerisce ben più ampie opportunità per il frammentato tessuto industriale italiano, oltre che per lo stesso sistema bancario.
Mentre nell’America del Nord (Usa e Canada) e in Gran Bretagna oltre il 70% del credito erogato alle imprese proviene da financial sponsor (per esempio, fondi di direct credit), con la quota rimanente finanziata dal sistema bancario, il rapporto di forza appare rovesciato in Europa Continentale (in Francia il credito bancario è al 55% del totale, con la Germania al 37% e l’Italia al 47%, rispetto al 22% per gli Stati Uniti).
I volumi di credito diretto non bancario (shadow banking) risultano infatti molto rilevanti a livello globale e caratterizzati da elevata crescita (dai 116 miliardi di dollari di dry powder del 2008 ai 506 miliardi del 2023, con masse in gestione complessive cresciute rispettivamente da 301 a 1.607 miliardi fino agli oltre 3.500 miliardi attesi per il 2028, secondo Preqin).
Il 58% di questo stock è tuttavia concentrato nell’America del Nord, con dry powder di direct lending di appena 182 miliardi di dollari a livello globale, per masse gestite pari a 546 miliardi.
Guardando alle attività di investimento, la quota italiana di private debt risulta pari ad appena 2,9 miliardi di euro nel 2023, con oltre i due terzi dell’erogato concesso a grandi imprese (1,5 miliardi è composto da ticket superiori ai 100 milioni, con altri 400 milioni superiori ai 50 milioni).
Peraltro oltre il 30% dei mini-bond (la forma tipica di erogazione) è sottoscritto dalle stesse banche, con limitato uso di basket bond (portafoglio di mini-bond diversificato).
Se la normalità italiana corrisponde dunque all’anormalità internazionale, dobbiamo chiederci, dati gli ampi spazi di recupero, se lo sviluppo del direct credit rappresenti un’opportunità per le imprese, per gli investitori e per le banche stesse.
Infatti, lo sviluppo di direct credit potrebbe non solo, da un punto di vista quantitativo, colmare evidenti gap di finanziamento (come quelli necessari alla conversione green delle imprese, più volte evidenziato dalla stessa Bce e che il solo sistema bancario italiano non può colmare) e risolvere inefficienze di mercato del sistema bancario (come il disincentivo delle banche a prestare ad aziende più piccole, data la maggiore penalizzazione nei termini del capitale regolamentare richiesto), ma anche ottimizzare il liability management delle pmi.
Questo avverrebbe grazie a durate medie ponderate dei prestiti più lunghe (oltre 5 anni la duration media negli Stati Uniti, oltre i 6 anni in Italia, con prevalenza di forme bullet), a fronte di un costo medio competitivo rispetto a quello bancario (6,8% nel 2023, secondo Aifi).
Il “più credito più a lungo a costi ragionevoli” delle imprese corrisponde peraltro a un’opportunità d’investimento a basso rischio (sono a oggi limitatissimi i tassi di default registrati), con rendimenti netti interessanti e decorrelati rispetto alle altre attività in portafoglio per gli investitori: sia Istituzionali (ad oggi, la quasi totalità in Italia) che retail (a livello globale, circa il 15% degli attuali asset in gestione sono di provenienza retail, a conferma del trend di democratizzazione dei prodotti d’investimenti di private market a cui il direct credit appartiene).
Entrambe le opportunità sono inoltre coerenti rispetto a quella, per il sistema bancario Italiano, di riorientamento delle attività verso quelle di asset e wealth management, con progressiva diversificazione delle fonti di reddito e dei rischi patrimoniali assunti, con una minore dipendenza del valore economico creato dal Tus, destinato a scendere.
Un Tus che ha largamente beneficiato le banche Italiane negli ultimi due anni, supportandone dividendi record e redditività ritornata finalmente, dopo molti anni, a un livello superiore al costo opportunità dichiarato dalle stesse banche (analisi Bce).
Anche per evitare un ritorno alla normalità di un valore di mercato inferiore a quello di libro le stesse banche italiane potranno supportare lo sviluppo del direct credit sia raccogliendo risparmi privati da investire in questi (con opportuni incentivi fiscali quali quelli dei Pir alternativi) sia lavorando in partnership con i fondi mid-market già attivi in questo settore attraverso attività di origination e co-finanziamento sui propri clienti.