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[L’intervento] Luigi Balestra (presidente Osservatorio Riparte l’Italia): «Il Dpcm anti Covid e le giuste ragioni del fortemente raccomandato»

La forte raccomandazione a non spostarsi, di cui all’ultimo DPCM, è stata oggetto di commenti della più svariata natura, accompagnati da critiche tese anche a suscitare ilarità.

Ciò per la sua asserita estraneità al normale modus procedendi del decisore politico il quale, quando interviene in relazione a situazioni che occorre fronteggiare in ragione del pericolo di danno a cui esse possono dar vita, lo fa contemplando un regime di divieti, di proibizioni.

La sferzante satira di Sebastiano Messina ha così tentato di cogliere la contraddizione di una formula la quale, nel contesto di un decreto che introduce plurimi divieti, esorta fortemente (all’avverbio sono state dedicate non poche attenzioni) ad osservare determinati comportamenti senza tuttavia imporli.

Viene in evidenza in tal modo, al di là della facile ironia che il tema, soprattutto quando abilmente cavalcato, può suscitare, un nodo dilemmatico di primaria importanza, consistente sul grado di “invadenza”, sotto l’aspetto numerico ma non solo, che la figura dei divieti – e dei correlativi obblighi che ne derivano in capo ai consociati – è lecito possa assumere.

Questo nel tentativo di governare e di porre rimedio a una situazione dai connotati eccezionali, per intensità del fenomeno, aree di estensione, tempi di durata, scenari ancor oggi caratterizzati da larghi margini di imprevedibilità.

Il che pone già da sé in rilievo come ragionare secondo canoni di normalità – vale a dire sulle modalità con le quali ordinariamente si agisce – per poi profilare velature critiche ogniqualvolta l’avverbio – nei fatti – «venga abbandonato», non sia del tutto appropriato.

Ora mi pare che due siano gli elementi dirimenti al fine di fondare l’adozione di un approccio, per così dire, di soft law: da un lato, l’idea che nell’attuale contingenza un modello di lockdown sulla falsariga di quello della primavera scorsa non rinvenisse, allo stato e per plurime ragioni, solide giustificazioni.

Dall’altro che era sì inopportuno introdurre ulteriori divieti rispetto a quelli contemplati nel DPCM – introduzione sconsigliata dalla combinata valutazione di altri e diversi interessi rispetto a quelli precipuamente sottesi ai comportamenti di cui si poteva astrattamente discutere la proibizione; ma che, purtuttavia, in relazione a determinati comportamenti valutati comunque come forieri di possibile pregiudizio, assumesse grande attualità e rilevanza porre all’attenzione della collettività l’importanza di tenere atteggiamenti complessivamente improntati alla massima attenzione e prudenza.

Di qui l’inopportunità di proibire ma, al tempo stesso, l’importanza di consigliare, di affiancare ai divieti un’attività di moral suasion in relazione a tutta una serie di altri comportamenti, diversi da quelli presi in considerazione nelle prescrizioni impositive; attività che, in ragione dell’autorevolezza di chi incarna determinati ruoli, può prestarsi a innescare meccanismi di spontanea condivisione.

In tal modo si attenuano le tensioni, si favorisce un processo che porta a concordare le scelte da mettere in campo al fine di preservare gli interessi dell’intera collettività.

Con questo spirito ben si può cogliere il mix di divieti – cui in ogni caso, è bene sottolinearlo, si accompagna un sistema di deroghe volte a rendere flessibili gli interventi anche in ragione delle specificità di singole situazioni cui mal si attaglia una rigida applicazione del divieto – e di raccomandazioni.

Un mix che lascia aperta la strada dell’adesione spontanea in una prospettiva di responsabilizzazione dei consociati, con i quali il decisore deve mirare a costruire un’alleanza al fine, se non di porre definitivamente termine nell’immediato alla difficile situazione in atto, quantomeno di attenuare la portata di una situazione che rischia di andare fuori controllo.

In un tale ordine di idee, mi sembra risultino immediatamente fugati i dubbi – pur autorevolmente avanzati da Enzo Cheli – di una curvatura verso uno Stato etico.

Piuttosto, si assiste alla deliberata iniziativa di rendere più leggero l’intervento di carattere impositivo, nella consapevolezza che il rapporto Stato-apparato/Stato-comunità non possa, ancor più in frangenti come questi, consumarsi unicamente sul piano della soggezione a prescrizioni unilateralmente sancite.

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