“L’America ci rifà un 2016. Nuova débâcle dell’establishment, sconfitta delle élite, sconfessione dei guru. Lo shock di otto anni fa non è bastato, la lezione non è stata appresa. Il mondo reale non è altrettanto depresso o sgomento, forse lo interpretano più cinicamente i mercati: indice Dow Jones alle stelle, forte rialzo del dollaro. Donald Trump deve tanta gratitudine al partito democratico”. Federico Rampini sul Corriere commenta così la vittoria del tycoon e avverte: “Altri errori vanno evitati nel Day After. Non teorizziamo che la democrazia americana è malata. Non può essere sana solo a condizione che vincano «i nostri». Non rifugiamoci nel complottismo tante volte denunciato quando lo pratica la destra. No, non è colpa di Elon Musk che ha sostenuto Trump o di Jeff Bezos che ha negato a Harris l’endorsement del suo giornale (Washington Post). Gli stessi Musk e Bezos avevano sostenuto i democratici fino al ciclo elettorale precedente, senza che nessuno si scandalizzasse. Né ha fatto scalpore che la maggioranza degli altri miliardari (Bill Gates, Mark Zuckerberg, Michael Bloomberg, George Soros) abbia continuato a sostenere il partito democratico. Harris ha incassato e ha speso molti più soldi di Trump in questa campagna. C’è da augurarsi – osserva l’editorialista – che nelle redazioni di giornali e tv non ricominci la «guerra partigiana», la «mobilitazione antifascista» che ha portato la sinistra ad autoglorificarsi senza conquistare un voto in più. Insultare e offendere è un vizio in cui eccelle Trump ma non ne ha il monopolio. Tanta élite progressista trasuda disprezzo classista verso gli elettori di destra contribuendo a gettarli nelle braccia del 47esimo presidente. In quanto a Trump, un rischio è che sopravvaluti la propria vittoria. È netta, però non è uno di quegli sconvolgimenti «a valanga» che l’America conobbe in passato. Nulla di simile allo stravolgimento delle mappe elettorali verso sinistra con Franklin Roosevelt o verso destra con Ronald Reagan. Gli elettori americani sono rimasti divisi a metà anche se la metà repubblicana è passata in vantaggio. Trump non ha ricevuto il mandato per una rivoluzione. Al contrario molti dei suoi elettori si aspettano un ritorno alla normalità, dopo gli eccessi di una sinistra troppo radicale. Dall’ordine pubblico al controllo delle frontiere, dal patriottismo all’importanza della famiglia, la metà della nazione che lo ha votato auspica cose che fino a Bill Clinton erano valori condivisi a sinistra. Se Trump eccede nell’interpretazione del suo mandato – conclude – le legislative di mid-term sono dietro l’angolo”.
Ezio Mauro, la Repubblica
“La resurrezione di Trump dopo la prima presidenza, la sconfitta nella sfida elettorale con Joe Biden, il rifiuto di accettare il verdetto delle urne, l’appoggio all’insurrezione e all’assalto al Campidoglio, la minaccia eversiva permanente è un evento meta-politico che verrà studiato negli anni, come il momento storico in cui si è avverata la grande metamorfosi culturale, politica, sociale degli Stati Uniti, un cambio d’epoca che ha un uomo come causa ed effetto: Donald Trump”. Così Ezio Mauro su Repubblica sottolineando come “Trump che ritorna nello studio ovale senza mai aver ammesso la sconfitta chiude e consacra il cerchio populista del carisma perenne, dove il leader può essere ferito, tradito, ingannato e persino deposto, ma mai battuto perché la missione cui è chiamato lo trascende proteggendolo. Si tratta dunque di una ri-consacrazione, che nelle urne non solo ha riconosciuto, prescelto e reinsediato il suo leader, ma ha in qualche misura operato un mutamento nel profondo del Paese, cambiando il popolo. Non soltanto è svanito il profilo del Grand Old Party, il vecchio partito repubblicano di Lincoln, Eisenhower, Reagan, Nixon e Bush, che nel succedersi dei leader e delle epoche conservava il mito della ‘casa sulla collina’, l’autoleggenda rassicurante della classe media protestante e conservatrice. Quella storia – osserva Mauro -si è interrotta con una mutazione genetica, lasciandosi invadere dal trumpismo e facendosi conquistare dall’estremismo bianco, suprematista, isolazionista e populista. E oggi siamo al punto che anche il concetto di partito, sia pure come comitato elettorale più che come struttura permanente, è espulso dal lessico di Trump, perfettamente consapevole di aver creato, o almeno incoraggiato e sicuramente cavalcato un’altra cosa: il ‘movimento’, più pronto a modellarsi sulle caratteristiche della leadership, più adatto alla battaglia e alla rivoluzione delle èlite, soprattutto più conforme alla vera cifra dell’epoca, che è la ribellione permanente. Ma oggi siamo oltre: mentre il partito democratico si rinfaccia i suoi errori, clamorosi, la nuova destra si mangia il sistema, non si accontenta di guidarlo ma lo contesta e lo rifiuta, attenta a non farsi ingabbiare nei suoi labirinti procedurali. A questo punto – conclude – c’è un unico fondale con cui fare i conti, l’ultimo scenario, l’anima del sistema: la democrazia”.
Veronica De Romanis, La Stampa
Veronica Romanis sulla Stampa parla delle sfide economiche del neo presidente americano: “La vittoria di Donald Trump – scrive l’editorialista – è ascrivibile anche al suo programma economico che può essere riassunto con lo slogan, non nuovo ma certamente efficace, «Make America great again». Come intende procedere? Primo la strategia. Trump ha promesso dazi «terribili», ossia pari ad almeno il 60% sui prodotti provenienti dalla Cina e il 10-20% su quelli provenienti dall’Unione europea. L’obiettivo è quello di proteggere le aziende che producono i loro beni in America. La strada delle tariffe è miope perché ad azione corrisponde sempre una reazione. Il risultato ultimo sarà quello di un’impennata dei prezzi dei prodotti e dei beni intermedi fabbricati fuori dai confini nazionali. Ciò si tradurrà in maggiore inflazione ovvero l’opposto di ciò che è stato promesso ai consumatori americani. Secondo, lo strumento. Il futuro Presidente degli Stati Uniti ha prospettato un massiccio ricorso al debito pubblico. Per rilanciare l’economia, che per inciso non sta andando affatto male grazie all’azione della presidenza Biden – osserva De Romanis – egli vuole abbassare le tasse, a cominciare da quelle che pesano sulle aziende. Le minori entrate, tuttavia, non saranno finanziate con minori uscite: potenziare la spesa pubblica è, infatti, uno dei capisaldi dell’agenda economica di Trump. E allora non resta che ampliare il già elevato indebitamento. I numeri parlano chiaro. Dal 2015 al 2023 il debito americano è salito dal 104,7% del Pil al 118,7 registrando un incremento del 14%. Nel 2029 è previsto raggiungere quota 132%. Mantenere nel tempo una dinamica crescente del debito pubblico non è solo una scelta costosa. E innanzitutto una scelta rischiosa per chi come l’America registra – oramai da anni – un disavanzo delle partite correnti. Quindi per ricapitolare, il ricorso al debito, ossia lo strumento scelto da Trump per rafforzare l’economia, rischia di trasformarsi in una trappola che aumenta la dipendenza dall’estero. Ancora una volta – conclude – l’esatto opposto di quanto è stato annunciato”.
Alessandro Sallusti, il Giornale
“Donald Trump è di nuovo presidente degli Stati Uniti, onore alla sua tenacia, resistenza e capacità. La sinistra, americana e non, è sotto choc; tra i conservatori c’è chi esulta e chi, soprattutto in Europa, nutre dubbi”. Lo scrive Alessandro Sallusti sul Giornale: “Capiamo tutti, anche questi ultimi ai quali però ricordiamo che in politica, come in qualsiasi campo della vita, il male minore è sempre meglio del peggiore e per un conservatore Kamala Harris e la sua corte di radical chic obamiani sarebbe stata una vera sciagura, per di più contagiosa. Come è capitato in Italia prima con Berlusconi, poi con Salvini e più di recente con Giorgia Meloni, anche in America la manovra a tenaglia tra magistratura e mezzi di informazione per fermare le destre ha fatto fiasco e ora sono lì a piagnucolare quando dovrebbero invece cospargersi il capo di cenere per la lunga serie di errori fatti e idiozie veicolate. Pensavano, come la nostra sinistra, che per vincere le elezioni bastasse presentare una donna a caso (di colore meglio, che fa appunto colore), parlare di aborto e di «fascismo», difendere l’immigrazione clandestina e fare sfilare nei loro comizi star miliardarie campioni di follower sui social, tipo il nostro Vasco Rossi. Nel mentre – sottolinea Sallusti – Trump parlava di sicurezza, stipendi, rincari di caffe e hot dog oltre che pace da imporre, che è altra cosa del pacifismo. Poteva finire diversamente? No, certo. E infatti per i trumpiani – che hanno di fatto sostituito i repubblicani – è stata una trionfale passeggiata che consegna loro oltre che il record di voti e la Casa Bianca, pure il Senato e la Camera dei rappresentanti. Un potere enorme che, avendo già loro il controllo della Corte Costituzionale, certo può fare paura. Quello che Trump farà a casa sua, nel bene e nel male, saranno gioie e dolori degli americani. Ci sono un paio di mesi di tempo – l’insediamento avverrà a gennaio – per capire come davvero, al di là degli slogan elettorali, vorrà comportarsi con l’economia e la difesa militare europee. Certo – conclude – non siamo nelle condizioni di mostrare i muscoli all’America (l’ultimo europeo che provò a farlo – caso Sigonella – si chiamava Bettino Craxi e non fece una bella fine), ma primo non credo ce ne sarà motivo e secondo, casomai, spero proveremo a usare almeno la testa”.
Guido Moltedo, il Manifesto
Guido Moltedo sul Manifesto prefigura gli scenari politici negli Usa: “Durerà ‘solo’ quattro anni la presidenza Trump, dal momento che l’appena eletto 47mo presidente degli Stati Uniti non potrà correre per un terzo mandato. Magra consolazione, si dirà, ma è pur sempre un dato politico non trascurabile, se si tiene conto che nel 2028 la rielezione di Trump sarebbe scontata, alla luce dell’esito del voto. Il dopo Trump è tutto da costruire e questo lascia uno spiraglio a una rivincita dei dem. Peraltro – scrive Moltedo – chi si candiderà dopo di lui non è neppure nel regno delle ipotesi, avendo fatto terra bruciata intorno a sé nel Partito repubblicano ed essendone diventato il padrone assoluto. C’è una questione di leadership, che si apre adesso, e una questione programmatica, un indirizzo che caratterizzi il partito come forza di opposizione a un presidente che la stessa Harris ha più volte definito di stampo ‘fascista’. Non sarà una normale opposizione, il regime trumpista metterà duramente alla prova ogni forma di contestazione, parlamentare, politica, civica, sindacale. Occorrerà una forza politica robusta per contrastare l’ondata di misure autoritarie e vendicative promessa dal nuovo presidente. È il partito di Kamala Harris, questa forza politica? L’analisi del voto fornirà dati preziosi per capire fino a che punto, dove e come si è andata disgregando la coalizione di organizzazioni sociali e di comunità che hanno tradizionalmente costituito la base elettorale del Partito democratico e come può essere ricostruita la cosiddetta ‘grande tenda democratica’ per entrare nella nuova fase di scontro. Ci vorranno nuovi leader. Evidentemente dotato di antenne logorate, anche dal potere, il Partito democratico non aveva messo in conto una sconfitta di questa portata, non aveva dato il peso che meritava ai voltafaccia di importanti organizzazioni sindacali e al tiepido appoggio di altre, non aveva intercettato il distacco di pezzi importanti del suo elettorato tradizionale. Solo una reazione forte e immediata – conclude – potrà consentire al Partito democratico di evitare che si aprano altre voragini, sempre più grandi, in cui rischiare di finirci dentro per sempre”.