Goffredo Buccini, sul Corriere della Sera, commenta la situazione a Gaza partendo dalle riflessioni di Liliana Segre, secondo la quale siamo passati dal miraggio di due popoli in due Stati alla realtà di «una trappola per due popoli» fondata sull’odio.
No, afferma Buccini, non si possono mettere sullo stesso piano gli architetti di questa trappola: di qua dittature di islamisti dediti all’annientamento dello Stato ebraico e di là un governo democraticamente eletto nell’unica, per quanto ammaccata, democrazia del Medioriente.
E, tuttavia, diciannove mesi e molti morti dopo, è ineludibile quel sentimento di «repulsione» che Segre ammette di provare verso le azioni dell’esecutivo di Gerusalemme, ricordiamolo, pesantemente condizionato dalla destra religiosa e radicale.
Non è giusto parlare di genocidio, ci spiega chi ne è stata bersaglio da ragazzina, e tuttavia non si può tacere sulle stragi e le atrocità sofferte dai gazawi in una guerra di reazione che ha perso ogni proporzionalità.
Il confine delle parole è tutto, nella grande tragedia che incatena tra loro israeliani e palestinesi.
E bisogna rispettarlo, per non perdersi nella terra di nessuno del relativismo.
Israele combatte dalla fondazione una guerra «esistenziale», avendo detto sì nel 1947 alla risoluzione Onu 181 sui due Stati e avendone ricevuto in contraccambio la prima aggressione della Lega Araba nel 1948.
Questa natura di sopravvivenza inscritta in ogni guerra israeliana ci viene rammentata ciclicamente dai suoi leader.
Ma la guerra esistenziale si può imbattere nella voragine morale della guerra asimmetrica, di cui molto ha detto Michael Walzer: quella nella quale il più debole combatte facendosi usbergo del proprio popolo, una guerra insurrezionale condotta in mezzo a donne e bambini, dentro scuole e ospedali, riversando sul più forte, sull’esercito avversario ad alta tecnologia, il carico della scelta etica, il preavviso del bombardamento che di rado salva davvero gli innocenti, il fardello di esodi di massa che troppo ricordano le deportazioni.