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[L’intervento esclusivo] Fabrizio De Filippis (Prorettore Università Roma Tre): «Nel settore agroalimentare occorre dire no sia all’ambientalismo integralista che al produttivismo senza freni. Ecco la strategia per raggiungere una sostenibilità profittevole»

Nel corso della fase dura della pandemia l’agroalimentare ha mostrato di essere un settore strategico, come si dice oggi “resiliente”, nella sua capacità di risposta alla crisi: produzione e logistica hanno tenuto, i rifornimenti di cibo non sono mancati – se non per qualche prodotto inizialmente oggetto di accaparramento – e i prezzi sono rimasti sotto controllo. Addirittura, nel 2020 il Food si è confermato punto di forza dell’export italiano, con vendite all’estero che hanno superato quelle del 2019.

In base a questi risultati, il comparto si candida a essere protagonista anche nella ripartenza, a condizione che le politiche economiche lo accompagnino in modo adeguato.

Su questo fronte, sono due le fonti che nei prossimi anni alimenteranno l’intervento pubblico nella filiera agroalimentare: da un lato, il PNRR, che assicurerà quasi 7 miliardi di euro in interventi su logistica, parco agrisolare, innovazione (in particolare agricoltura di precisione), contratti di filiera, sviluppo di biogas e biometano, agrosistema irriguo; dall’altro, la Politica agricola comune (PAC) dell’UE, che è l’intervento, per così dire, ordinario, ma che già prima della pandemia aveva posto l’agricoltura al centro della svolta verde lanciata dalla Commissione di Ursula Von der Leyen con il cosiddetto Green Deal.

Per la parte agricola del PNRR si ripropongono le preoccupazioni e gli auspici che valgono per il piano nel suo insieme, con l’imperativo di spendere presto e bene le risorse disponibili: in effetti, per l’agroalimentare le priorità sono state scelte bene, giacché riguardano interventi che integrano e potenziano linee già presenti nell’azione delle Regioni e del Mipaaf.

Più incerto e il fronte della nuova PAC, la cui entrata in vigore è stata rinviata al 2023, ma su cui Parlamento e Consiglio europeo non hanno ancora trovato l’accordo definitivo e la cui preparazione si annuncia non facile per l’Italia, poiché prevede la stesura di un Piano nazionale concordato con le Regioni.

Ritardi e difficoltà a parte, preoccupa l’approccio con cui declinare la svolta verde della PAC, ostaggio di due visioni opposte: da un lato, un ambientalismo integralista che vuole imporre vincoli eccessivi rispetto alla tenuta competitiva del settore agricolo europeo, con il rischio di essere invasi da produzioni di Paesi con standard meno rigorosi, penalizzando i produttori interni e finendo con esportare all’estero il danno ambientale associato alle produzioni interessate, senza aumentare la sostenibilità a livello planetario.

Dall’altro, un produttivismo senza freni, insofferente a ogni normativa che alza i costi e complica la vita ai produttori, che vorrebbe ridurre la svolta verde a un innocuo green washing.

Queste visioni sono entrambe sbagliate e vanno ricomposte in una difficile mediazione, volta non tanto a ridurre il rigore delle azioni per la sostenibilità ambientale, che non è negoziabile, quanto a individuare tempi e modi con cui metterla in pratica.

In altre parole, il modello di sostenibilità non va imposto ma costruito insieme ai produttori, sostenendolo con politiche di accompagnamento e compensazione necessarie a metabolizzarlo; ma soprattutto, rendendo chiaro che più di una minaccia da cui difendersi si tratta di un’occasione da sfruttare, per arrivare, prima di altri, a una competitività più evoluta e a lungo termine più profittevole.

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