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Dopo la pandemia serve un nuovo rapporto tra medicina clinica e quella sociale. Per non commettere più gli stessi errori

Dopo la pandemia da SARS-CoV-2 (Covid 19) si sostiene che non si possa tornare al passato e che occorre cambiare molte cose, rimediare a molti errori, garantire i principi fondanti della sanità universale e pubblica, rendendola adeguata alle sfide che incombono.

In realtà le sfide preesistevano alla pandemia ma la società e i governi avevano deciso di far finta di niente. Adesso i fatti costringono a riflettere e a prendere decisioni efficaci che, però, riguardano interventi diretti alla collettività e, per questo, talora imitativi della libertà individuale.

Sottesa a ogni considerazione giuridica sulla tutela dei diritti delle persone è la necessaria ricomposizione dei due aspetti fondamentali della medicina, quella clinica, individuale, e quella sociale, comunitaria o di popolazione, già ricongiunti nel dettato costituzionale: “la Repubblica tutela la salute” come “diritto dell’individuo e interesse della collettività”; diritti e interesse sono posti sullo stesso piano dalla congiunzione “e”. Altresì l’individuo si connette con la collettività mediante la solidarietà la cui doverosità la stessa Costituzione sancisce.

La questione della medicina sociale si è posta nella storia della medicina con diverso vigore ma, da Ippocrate a Ramazzini a Virchow, la attraversa tutta. Negli ultimi decenni la medicina si è assai più dedicata alla cura di target di popolazione sempre meno numerosi con oneri sempre maggiori; i diritti dell’individuo sono prevalsi sul paternalismo ippocratico fino al trionfo della cultura dell’autodeterminazione.

Di fronte alle grandi scoperte della chimica e della fisica che stavano cambiando la metodologia clinica, alla fine del secolo XIX le vittorie della medicina sociale facevano sperare in un futuro volto al benessere di ogni uomo all’interno di comunità sane.

“La clinica e l’igiene, costituenti insieme la Medicina Politica, cooperano alla soluzione dei più grandi problemi che si affacciano del pari alla mente del medico e del moderno uomo di Stato”. La frase di Giulio Baccelli apparsa sul “Lavoro” del 1/11/902 (citata da G. Cosmacini della sua “Storia della Medicina in Italia”), sintetizza questa speranza e introduce assai bene la riflessione sul momento storico della medicina che stiamo vivendo.

Oggi la pandemia ha richiamato con forza i problemi sanitari della collettività la cui terapia, fermo restando la cura dei singoli pazienti, è quasi del tutto riposta nei provvedimenti di sanità pubblica, in attesa di un’altra terapia sociale, il vaccino.

La medicina clinica e quella sociale sono inscindibili e la medicina tutta non può non essere che politica. E una politica forte perché incide sull’economia. 

La medicina deve prendere coscienza di due questioni: che la salute non può più essere meramente antropocentrica ma deve considerare in un’unica visione la biodiversità, il rispetto dell’ambiente, la vivibilità del mondo anche per le future generazioni; che la preparazione alle calamità, la promozione della salute, la medicina preventiva e sociale sono una faccia della medicina moderna che deve trovare sintesi tra la tutela della salute individuale, nel rispetto dei diritti della persona, e gli interessi della collettività.

La medicina deve recuperare una vocazione antropologica e sociale e una dimensione etica e politica che non modifica in nulla la relazione col paziente su cui si fonda il ruolo di aiuto nella sofferenza.

La pandemia ha reso attualissimo e cogente l’articolo 32 della Costituzione. Il che dovrebbe favorire la sostenibilità del sistema salute e introdurre, nel valore fondante della beneficialità, una buona dose di equità e di giustizia.

La medicina non è soltanto storia della relazione coll’individuo e della tutela dei suoi diritti (la centralità del paziente) ma anche storia dei grandi interventi sociali che si fondano sulla centralità della comunità dei cittadini anzi dell’intera umanità: la sanità é un bene comune perché fruibile da chiunque.

Tale ragionamento ha senso se si rispettano i limiti dell’autonomia e della libertà della persona umana.

Il rischio di TSO collettivi e di intollerabili limitazioni della libertà (pensiamo a chi è stato intubato a Bergamo e si è risvegliato in Germania) esiste, ma i limiti della libertà individuale rispetto ai valori della solidarietà sono di pertinenza della buona politica, della costante verifica etica nonché della vigilanza democratica dei cittadini.

Nella sanità quotidianamente vissuta occorre distinguere la lesione dei diritti umani per abbandono colpevole o inevitabile, sempre censurabile sul piano deontologico, dalle decisioni che possono condurre a un deficit di umanità o a una limitazione della libertà personale derivante però da un superiore interesse quale la salute di tutti, purché tali obblighi rispondano a criteri di efficacia, di proporzionalità e di legalità e rappresentino un onere equo e tollerabile.  

La tensione tra “diritto” dell’individuo e “interesse” della collettività non può essere affrontata limitatamente all’episodio pandemico.

Occorre collocare correttamente la questione: i cambiamenti climatici e la pervasività della moderna tecnologia hanno condotto a quello che ormai molti definiscono “antropocene”, un’epoca caratterizzata dal dominio delle attività umane.

In siffatto profondo mutamento emerge l’idea di una gestione “securitaria” della salute che inquadri i problemi di salute globale tra le nuove ed emergenti minacce alla sicurezza collettiva, dato che la diffusione di malattie infettive altamente patogene può minare le basi politiche, economiche e sociali degli Stati.

Diversi  rapporti  internazionali hanno definito l’interrelazione tra salute e sicurezza umana, includendo la sicurezza sanitaria tra le sette dimensioni della sicurezza umana, insieme con la sicurezza economica, la sicurezza alimentare, la sicurezza ambientale, la sicurezza personale, la sicurezza garantita dalla comunità e la sicurezza politica ed  evidenziato l’impatto multidimensionale  e  transnazionale delle minacce sanitarie, riaffermando l’approccio integrato alla sicurezza umana mediante l’interconnessione e l’interdipendenza tra salute pubblica, sicurezza e diritti umani e riconducendo la sicurezza sanitaria nella più ampia nozione di sicurezza umana.

In conclusione non vogliamo tornare come prima della pandemia, quando questi problemi erano conosciuti, ma negletti.

Le grandi sfide del cambiamento climatico e dell’aumento delle disuguaglianze devono trovare risposta a partire da una rinnovata consapevolezza e da una visione più ampia che, fatti salvi gli irrinunciabili diritti individuali, sul loro rispetto ponga le basi di una rinnovata alleanza tra medicina e società.

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