Nello show organizzato da Donald Trump per annunciare la svolta di politica commerciale negli USA la sera del 2 aprile uno dei colpi ad effetto è stato quello di mostrare un pannello che riporta la motivazione fondamentale all’introduzione di dazi.
Il pannello riporta sulla prima colonna “dazi applicati agli USA”, cioè in che misura i diversi paesi applicano tariffe sulla merce importata dagli USA, il secondo i nuovi dazi introdotti dal governo statunitense per ciascuno dei paesi. Questo pannello fornisce agli spettatori l’idea che la logica che sta dietro alla mossa di Trump sia quella di rispondere, almeno parzialmente, a dazi che i paesi impongono agli Stati Uniti.
I numeri però sono apparsi subito sospetti. Per esempio che la Cambogia applichi una tassazione del 97% alle merci provenienti dagli Stati Uniti è chiaramente irrealistico. Un secondo dubbio proviene da un numero elevato di paesi che secondo questo pannello impongono esattamente tariffe del 10% sulle importazioni.
I dubbi si sono dissipati velocemente non appena è apparso chiaro che il valore indicato sul pannello appariva curiosamente proporzionale alle esportazioni nette dei paesi verso gli Stati Uniti. Un paese come la Cambogia infatti non importa molto dagli USA mentre esporta una varietà di beni fra i quali articoli in pelle e elettronici. Nelle ore immediatamente successive alla conferenza stampa alcuni economisti statunitensi, fra i quali Arpit Gupta, professore alla New York University, ha messo in relazione i “dazi applicati agli USA” con il rapporto fra importazioni nette e importazioni, trovando una relazione praticamente perfetta.
Per questo motivo paesi come la Cambogia o il Vietnam sono così in alto. Tendono ad esportare molto più verso gli Stati Uniti rispetto a quello che importano. In che misura questo rapporto può essere considerato una barriera o un dazio? Da nessun punto di vista.
Per l’amministrazione Trump uno squilibrio commerciale deve avere per forza un colpevole, perché non è possibile che un paese compri più di quello che vende a un altro. Anche in questa logica rimane il problema insoluto dell’Australia e di tutti gli altri paesi per i quali quel rapporto è negativo. In questo caso l’amministrazione Trump assegna un forfettario 10% di dazio. Perché in fondo, per quei paesi nei quali sono gli Stati Uniti a godere di un surplus commerciale, vuoi che non stiano cercando di fregarci anche loro un po’? Mettiamoci un 10% e non pensiamoci più.
Una nota del ministero del Office of the U.S. Trade Representative pubblicata poco dopo la conferenza chiarisce anche come sono state calcolate le tariffe nella seconda colonna, quelle introdotte da parte degli Stati Uniti. La formula, sotto alcune ipotesi piuttosto assurde, vorrebbe portare in pareggio importazioni ed esportazioni con tutti i paesi.
Gli economisti della Casa Bianca hanno messo insieme lo squilibrio esistente, la reattività attesa della domanda di importazioni al momento che i dazi ne aumenteranno il prezzo per determinare quelli che sono chiamati “dazi reciproci”. Imponendo queste aliquote gli Stati Uniti dovrebbero tornare in pareggio fra importazioni ed esportazioni con tutti i paesi del mondo.
Le critiche e l’ironia dei maggiori esperti di commercio internazionale sono fioccate. Dani Rodrik, professore ad Harvard, ha dichiarato che le assunzioni sul funzionamento di questo meccanismo porterebbero alla bocciatura di un esame introduttivo di economia. Ma l’ironia e lo sdegno per l’incompetenza non risolvono la situazione in cui si trovano a questo punto l’Unione Europea, la Cina e tutti i partner commerciali degli Stati Uniti.
La prima domanda che occorre farci è quale sia il reale obiettivo di Trump. L’obiettivo nominale è la riduzione dello storico squilibrio commerciale. Nel breve periodo questo obiettivo può essere ottenuto solo parzialmente ed a costo di una inflazione sui beni di consumo non trascurabile. Nel lungo periodo questo obiettivo dipende dalla capacità di trasferire investimenti delle multinazionali sul territorio USA. In questo Trump fa leva sulla dimensione del mercato americano, la sua forza è la generosità del consumatore statunitense.
Esiste però un altro possibile obiettivo non sufficientemente discusso. Trump potrebbe provare a creare uno spazio fiscale sufficiente ad una detassazione in prossimità del mid-term. Allo stato questo spazio è inesistente il deficit Usa è già a bocce ferme del 6/7% del Pil per effetti di trascinamento ed il debito potrebbe entrare in una spirale perversa soprattutto se i dazi innescassero una recessione. Non si tratta di ipotesi peregrine visto che Larry Fink, il CEO di Blackrock, ne ha parlato esplicitamente nei giorni scorsi e le mattane del DOGE possono anch’esse essere interpretate in questa chiave, sempre giustificate sul piano ideologico.
In una prospettiva di turbolenza e crisi del debito statunitense puntare su una fonte di risorse che, secondo la propaganda sarebbero i ‘patetici’ stranieri che si sono approfittati di noi a pagare, sarebbe quantomai benvenuta. Trump, quindi, starebbe cercando di evitare quella che l’Economist ha due settimane fa definito l’unica vera opposizione che potrebbe rovesciarlo, quella dei mercati dei titoli di Stato. Sta però paradossalmente fronteggiando la resistenza di un altro temibile oppositore: il mercato azionario. E non certo per una volontà oscura, ma per la logica dei fatti.
Inoltre, rimane tutto da verificare che non siano in realtà i consumatori americani a pagare in grande misura il conto, anche se buona parte delle produzioni fossero rimpatriate. Perché c’è una buona ragione per cui alcune produzioni sono delocalizzate in Cambogia o Vietnam, dove costano una frazione del costo negli USA, oppure, nel caso dell’Europa, a parità di prezzo sono realizzate molto meglio.
In ogni caso, se questo è il vero obiettivo Trump, non farà marcia indietro sui dazi e i reiterati appelli alla trattativa potrebbero risultare inutili. Cercare di dimostrare quanto sono sbagliate le teorie economiche della Casa Bianca è un esercizio del tutto inutile. La logica di Trump è politica e consiste in un’interpretazione estorsiva delle relazioni commerciali. Questo significa anche che le strategie di appeasement sposate con una prudenza e toni moderatissimi inconsueti dal nostro governo non hanno senso. Il danno di breve periodo alle nostre esportazioni potrebbe essere relativo ma il danno grande potrebbe venire dallo spostamento di investimenti. La probabilità che gli investimenti fluiscano effettivamente negli Stati Uniti dipende dalla reazione europea. In assenza di reazione, non si capisce perché le multinazionali, a partire da Stellantis, non dovrebbero smettere in di investire in Europa.