“La domanda può sembrare ingenua: in una situazione di allarme pre-bellico – come di fatto è rappresentata l’attuale fase – il “militare” prevale su ogni preoccupazione civile, compresa quella per le sorti del pianeta.
Ma non è così semplice. L’Ue mantiene obiettivi di decarbonizzazione che persegue con norme (pur indebolite dalle semplificazioni del Clean Industrial Deal) e finanziamenti pubblici e privati che si trovano ora a competere con le esigenze del riarmo”.
Se lo chiede l’economista Sergio De Nardis dalle colonne del magazine digitale Inpiù.net.
“Le risorse pubbliche per la difesa includono 150 miliardi di debito comune, oltre alle eventuali spese che i singoli governi vorranno intraprendere nei margini concessi dalle regole fiscali.
Quelle private consistono nella mobilitazione di capitali, cui punta il nostro ministro dell’economia, che dovrebbe portare fino agli 800 miliardi del piano.
Tuttavia, quest’ultima fonte di approvvigionamento è soggetta ai vincoli (normativi e reputazionali) di finanza sostenibile ancora vigenti.
Allo stato attuale può essere arduo per il capitale privato – veicolato da fondi e banche – spostarsi in massa verso imprese produttrici di strumenti bellici a elevata intensità di carbonio (aerei, carri armati, missili, ecc.), per non parlare delle aziende coinvolte nelle armi controverse che causano danni permanenti alla popolazione civile e all’ambiente (mine anti-uomo, munizioni a grappolo, chimico-biologiche, uranio impoverito, fosforo bianco, armi nucleari).
Difficoltà dovrebbero sussistere anche per il finanziamento pubblico: la spesa per la difesa europea non consiste solo in asettica R&D con auspicate ricadute civili, ma nella costruzione di un apparato in grado di condurre guerre sul campo come quella in Ucraina.
I potenziali sottoscrittori di bond potrebbero tenerne conto.
Per superare le evidenti incongruenze tra obiettivi ambientali e militari, l’Ue può imboccare due opposte strade.
La prima è quella di ribadire la stella polare della transizione green e prescrivere, anche per il riarmo, tecnologie pulite, con garanzie di sicurezza ambientale, utilizzabili nel civile, oltre che un rigido framework etico che preclude finanziamenti ai produttori di armi controverse.
Se l’Europa fosse un’entità forte, potrebbe inoltre accompagnare le maggiori spese a iniziative di rilancio del disarmo nucleare.
Non sarebbe una contraddizione, ma qualificherebbe il senso del riarmo europeo, contingente alla situazione (disimpegno Usa) e volto alla difesa.
Questa, però, è chiaramente un’utopia che porta a considerare come più concreta una seconda strada.
L’Ue mantiene la priorità dell’efficacia militare – ossia della capacità di offesa degli strumenti in cui si investe, non importa come prodotti – ma stabilisce che la spesa in armi è, nel nuovo contesto, indispensabile al perseguimento dei target di sostenibilità, con conseguente venir meno dei residui vincoli, normativi o etici, al massiccio riorientamento dei finanziamenti.
Sarebbe insieme un salto acrobatico e un colpo alla decarbonizzazione: un passo non così improbabile nella corrente temperie europea” conclude De Nardis.