«Il reddito di cittadinanza oggi esclude i working poors che hanno perso l’attività nella crisi e non va legato alle politiche attive del lavoro. E in più occorrono anche ammortizzatori sociali meno frammentati, una politica dei servizi, della casa e una sanità di prossimità». Lo afferma la sociologa Chiara Saraceno, intervistata da Roberto Ciccarelli sul Manifesto.
Professoressa Chiara Saraceno, per l’Istat le conseguenze sociali ed economiche innescate dalla pandemia del Covid hanno creato un milione di poveri in più. Chi è stato colpito di più? «Sono dati tragici, ma non sorprendenti. Quello che preoccupa è l’aumento della povertà assoluta nelle famiglie di lavoratori. Formalmente non sono disoccupati, saranno in cassa integrazione, hanno la partita Iva o sono persone che non si dichiarano in cerca di occupazione».
«L’impoverimento assoluto riguarda chi, fino all’anno scorso, non era sulla soglia della povertà. Oltre agli operai o agli impiegati, è impressionante l’aumento della povertà nel lavoro autonomo. La crisi lo ha colpito in maniera particolare qui».
Sono le donne ad essere le più colpite nelle famiglie dei working poors? «Sì, e questa non è solo una caratteristica italiana. Si sono persi molti redditi principali nelle famiglie, ma anche molti secondi redditi, quelli che di solito permettono di mantenere il nucleo sopra la soglia della povertà. Sono le donne ad avere il secondo reddito e fanno da “cuscinetto di riserva”».
«In questo dramma aumenta anche la povertà educativa dei bambini e degli adolescenti che oggi sono in didattica a distanza in una scuola interrotta e intermittente a causa dell’epidemia. La Dad danneggia tutti, psicologicamente e relazionalmente, nell’opportunità di apprendimento e sviluppo delle capacità».
«In più per i ragazzi che vivono nelle famiglie più colpite dalla crisi soffrono per le condizioni abitative difficili, per i genitori che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, la vita è impossibile. Mi auguro che si pensi a loro con attività di accompagnamento in luoghi sicuri dove possono trovare sostegno».
Il ministro del lavoro Orlando ha annunciato la sua partecipazione al comitato di valutazione del reddito di cittadinanza. Ritiene necessario che sia ampliato e in che modo? «Il comitato non c’è ancora e non so chi altro dovrebbe farne parte. Per il reddito di cittadinanza sono aumentate le domande. Oggi il problema non è ampliare l’ammontare, ma rivederne gli obiettivi. È stato pensato come una misura attivazione al lavoro, ma una politica di reddito minimo non dovrebbe essere un politica del lavoro in nessun paese al mondo».
«Un “reddito” deve garantire il diritto ai consumi essenziali, anche perché molti dei suoi beneficiari non sono in grado di lavorare. Per come è stato pensato, il reddito di cittadinanza, difficilmente intercetta i lavoratori working poors perché hanno una casa di proprietà o risparmi. Oltre alla scala di equivalenza, va rivisto il criterio dell’Isee. Per avere il beneficio bisogna portare la dichiarazione dei redditi di due anni prima. Ma questo è sbagliato sempre».
«La valutazione della situazione economica va fatta a partire dal reddito corrente, e deve essere valida per tutti, non solo per alcune categorie. Pensi alla crisi attuale: se chi ha chiuso bar e ristoranti, o ha perso il fatturato da partita Iva, portasse la dichiarazione dell’anno precedente sarebbe escluso. L’anno scorso è stato creato il “reddito di emergenza” (Rem). È una follia. Avevamo almeno una misura unica, eppure ne hanno inventata un’altra».
«Se il “reddito” non intercetta chi ha bisogno significa che non funziona, non che va fatta un’altra misura! Poi vanno fatti i controlli. Ma bisogna essere realisti. Meno male che un reddito esiste. Se non ci fosse stato, sarebbe stato peggio. Ora va corretto».
Eppure il reddito di cittadinanza è legato alle politiche attive del lavoro. Lo è nel piano di ripresa europeo e lo è nella legge sul reddito di cittadinanza. Questa è la soluzione per povertà e disoccupazione? «Abbiamo visto che il lavoro non necessariamente protegge dalla povertà, un giorno si dovrà anche lavorare sui salari e sulla sicurezza del lavoro, oltre che sul rafforzamento dell’occupazione delle donne».
«Da qualche decina d’anni dico che la migliore forma di protezione è che le donne lavorino. Tra i percettori del reddito c’è una quota che può fare lavori parziali o non è in grado di lavorare per motivi diversi: malattia, età avanzata. In questi casi le politiche attive del lavoro non servono a molto. Lo sbocco occupazionale è l’ideale per una quota dei beneficiari del reddito di cittadinanza che è in grado di lavorare, perché ha una qualifica o la può prendere».
«Il reddito di cittadinanza va anche a famiglie dove i membri lavorano già, anche se non hanno un reddito di lavoro sufficiente. In questi casi si può creare un’attivazione, finché si può, ma bisogna pensare a seri corsi di formazione che mettano in grado di intercettare le occupazioni che si vorrebbero creare con il piano europeo di resilienza nel digitale e nell’ambiente. Purtroppo nessuno ci sta pensando. Per chi perde il lavoro ora, non c’è alcuna iniziativa. Si pensa che tutto ricomincerà come prima, ma non sarà così».
È possibile concepire un reddito di base sganciato dalle politiche attive del lavoro? «Sì, oppure agganciarlo a un lavoro per quelli che possono lavorare, ma che va pensato come una politica attiva del lavoro».
Oltre al reddito, di quali politiche avrebbe bisogno questo paese per avere un Welfare più universale? «Ammortizzatori sociali meno frammentati e un po’ più universali e omogenei. Mi rendo conto che proteggere lavoro dipendente è diverso da quello autonomo, ma è necessario proteggere entrambi. Oggi abbiamo rapporti di lavoro frammentati, dobbiamo pensare a un sistema di protezione più adeguato rispetto a quello attuale che già diversifica nel lavoro dipendente».
«È un modello da ripensare. Welfare vuol dire anche infrastrutture sociali dagli asili nido come servizi come pari opportunità per i bambini, a prescindere dal fatto che la madre lavori o no, perché altrimenti diventa un circolo vizioso. Ci vogliono servizi domiciliari per gli anziani fragili, una politica pubblica per la casa meno ghettizzante di quella fatta negli anni Settanta quando sono stati costruiti quartieri che sono diventati ingestibili. E poi sulla sanità dove abbiamo bisogno di molti più servizi di prossimità».