L’ampia vittoria di Donald Trump in America va inquadrata e in parte spiegata da due macro-tendenze in atto nelle democrazie.
La prima riguarda la spaccatura tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri – visibile dagli inizi degli anni 90 – dove il punto principale è la decrescente speranza dei secondi di poter diventare ricchi.
Per inciso, Edward Luttwak, io e Giulio Tremonti pubblicammo Il fantasma della povertà (Mondadori, 1995) per segnalare questa tendenza e proporre correzioni per le democrazie statunitense ed europee.
La seconda è un mutamento della rappresentanza politica in un numero crescente di democrazie: sempre più la destra tende a rappresentare chi si sente o è impoverito mentre la sinistra vede ridotto il suo profilo di protezione sociale.
Pur trentennale, questa tendenza di crisi del capitalismo di massa, ora l’esito delle elezioni statunitensi segnala che è il momento di cercare una riparazione del modello democratico sul piano della ricchezza diffusa socialmente, nuovo livello di competizione tra destre e sinistre.
Dalla seconda metà degli anni 90 propongo nei miei libri una transizione (graduale) dal welfare redistributivo (modello europeo) o dal welfare minimo (modello americano) a un nuovo modello di welfare di investimento per tutte le democrazie: invece di assistere si tratta di investire risorse fiscali (entro una riduzione delle tasse) per la qualificazione degli individui (più formazione di base e continua) allo scopo di renderli più mobili e capaci, mantenendo l’assistenza solo per casi di evidente necessità.
Ma tale nuovo modello di liberismo socialmente consapevole richiede una robusta domanda di lavoro che favorisca la mobilità ascendente (i figli possono guadagnare più dei padri).
Ciò implica una forma aperta del mercato internazionale che potrebbe essere messa a rischio dal nuovo bipolarismo corredato da sanzioni e barriere economiche crescenti.
Per tale motivo ho attivato nel 2013 un programma lungo di ricerca titolato “deglobalizzazione conflittuale e riglobalizzazione selettiva” in base a una visione (parzialmente) pessimistica al riguardo della globalizzazione generalizzata, ma ottimistica per la formazione di un mercato integrato delle democrazie a partire da un’espansione degli accordi del G7 e suo allargamento capace di condizionare il resto del mondo.
La nuova amministrazione Trump agirà verso questo scenario oppure farà mosse americaniste globalmente destabilizzanti?
Lo sapremo tra qualche settimana.
Probabilità? Io penso che la nuova amministrazione vorrà arrivare alle elezioni di mid term nel 2026 mantenendo la maggioranza nel Congresso e per tale motivo non destabilizzerà il G7 pur pressandolo né attuerà un eccesso di protezionismo controproducente.
L’Ue? Senza la sua convergenza l’America non potrà mantenere il primato globale e l’Ue non potrà mantenersi passiva e con spesa di sicurezza insufficiente per trattare con l’America.
Mi aspetto una convergenza tra le due più che un decoupling.