Non possiamo rinunciare alla stabilità nell’azione di governo. Per questo i mesi che abbiamo davanti (non solo in ottica Quirinale) devono servire per ricostruire e non per logorare. Lo afferma Marco Tarquinio, sostenendo che per rendersene conto «basta dare un’occhiata al calendario del 2022 e alle prove e agli “esami” economico-sociali che, mese dopo mese, dovremo affrontare come comunità nazionale».
«Leggerlo, e ragionaci su, serve anche a continuare la riflessione su quanto temerario sarebbe “dare per scontato” Mario Draghi e il servizio che svolge a Palazzo Chigi, in un non cercato ma accettato e prezioso ruolo-guida nella Ricostruzione italiana ed europea. Basta ragionare, e tenere i piedi per terra», dice il direttore del quotidiano dei vescovi «per rendersi conto di quanto sarebbe pericoloso trasformare quest’anno cruciale appena agli inizi, e che coincide con la lunga vigilia del voto generale della primavera 2023, in un ring e ridurre l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica al primo round di una presuntuosa scazzottata tra partiti con pochi muscoli e meno cervello. Ricostruzione, sì», scrive su Avvenire.
«A questo dovremmo sentirci tutti chiamati, come negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Impegnati a fare di tutto – comunque inclini il nostro favore partitico e dovunque batta il cuore – perché questi anni Venti somiglino a quella faticosa e bella stagione di ricominciamento, quando pur nelle divisioni più radicali si trovò la giusta misura comune per dare volto alla democrazia e preparare lo sviluppo che avremmo chiamato Miracolo».
«A far di tutto perché non siano, invece, come il decennio infausto e nero, quegli altri anni Venti, in cui – giusto un secolo fa – si marciò e si fecero marcire le Istituzioni, si annientò la nostra democrazia (e altre ugualmente imperfette) e si lasciò incubare ed esplodere una poderosa crisi sociale ed economica, approfondendo e infettando le ferite aperte d’Italia e d’Europa, appestando infine il mondo intero».
«Allora c’era Alcide De Gasperi al governo e si elesse Luigi Einaudi al Quirinale. A nessuno venne in mente di far traslocare sul Colle l’indaffaratissimo ed efficace presidente del Consiglio o, magari, di usare tale prospettiva per logorarlo e congedarlo scriteriatamente anzitempo. E tantomeno saltò in testa di usare il Colle per rivincite personali o di fazione. Si parla tanto di “metodo” per la scelta del Capo dello Stato: si cominci magari da qui, consapevoli dell’esigente cammino che ci sta davanti».
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