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Il Metropolitan Museum of Art vende alcune opere per pagare il personale

Vendere un’opera tradisce la missione di un museo? E’ l’interrogativo che sta agitando il settore negli Stati Uniti a un anno dalla decisione dell’Association of Art Museum Directors (Aamd) di consentire agli istituti di cedere i loro prezzi pregiati per poter compensare gli introiti mancati a causa della pandemia. Molti musei hanno però approfittato della sospensione del divieto di ‘deaccessioning’, valida fino all’aprile 2022, per diversificare le proprie collezioni. Quella che era nata come una misura emergenziale per coprire le spese ha aperto quindi un mercato che in molti considerano incompatibile con il ruolo che i musei hanno all’interno della comunità, ovvero preservare i loro tesori per il pubblico.

Molti musei sono stati costretti a cedere alcuni capolavori per ragioni di sopravvivenza, in linea con la filosofia alla base della scelta dell’Aamd. E’ il caso del Brooklyn Museum che, già in difficoltà economiche prima della pandemia, lo scorso settembre ha messo sul mercato 12 opere, tra cui un Monet e due Dubuffet, in cerca di fondi per la manutenzione della collezione. Verrà invece utilizzata per pagare il personale parte della somma che uno dei più importanti istituti di New York, il Metropolitan Museum of Art, ricaverà dalla vendita di alcune opere, in alcuni casi possedute in più copie

Max Hollein, direttore del ‘Met’, ha minimizzato l’impatto dell’operazione. “Le istituzioni americane hanno praticato ‘deaccessioning’ per decenni”, ha dichiarato Hollein all’agenzia France Presse, “siamo molto esperti nel farlo, ci crediamo e riteniamo che lo sviluppo della nostra collezione ne tragga benefici”. Più spregiudicata la politica di soggetti minori come l’Everson Museum of Art di Syracuse, che lo scorso ottobre ha venduto un Pollock per 12 milioni di dollari, reinvestendo i proventi nell’acquisto di altre opere. Una mossa equivalsa alla “vendita della propria anima” per il Wall Street Journal, sulle cui colonne l’editorialista Terry Teachout si era scagliato contro la struttura rea di “utilizzare il lodevole obiettivo di finanziare una collezione più diversificata come una scusa per tradire la fiducia del pubblico”.

“E’ davvero preoccupante quando l’arte sulle pareti si trasforma in un’attività finanziaria”, ha sottolineato Laurence Esisenstein, l’avvocato che ha guidato la rivolta contro i vertici del Baltimore Museum of Art (Bma), costretti a fare marcia indietro sulla vendita di tre importanti opere, tra cui un Warhol. Obiettivo della transazione, in tempi di ‘Black Lives Matter’, era riequilibrare la collezione con un maggior numero di opere di afroamericani, che costituiscono quasi il 63% della popolazione della città. Di fronte alle forti critiche, il direttore del Bma, Christopher Bedford, ha poi deciso di organizzare, a tale scopo, una raccolta di fondi. Nondimeno, Bedford ritiene che sarà difficile per i musei diversificare le collezioni se le regole sul ‘decommissioning’ non cambieranno in modo stabile. “Stiamo scivolando nell’irrilevanza perché ci rifiutiamo di aggiornare i nostri modelli di pensiero e azione”, ha dichiarato Bedford alla France Presse.

Secondo Eisenstein, però, un museo che venda troppe opere rischia di perdere il sostegno economico di donatori e autorità, che smetterebbero di considerarlo un istituto senza scopo di lucro. “A questo punto diventerebbe difficilissimo per i musei diventare fedeli e fidati custodi dei beni culturali negli Stati Uniti”, ha avvertito l’avvocato. Anche il Met ha fatto dell’apertura alle minoranze una priorità ma ritiene che la strada corretta sia rivolgersi ai donatori. “Non utilizziamo la nostra collezione attuale per raggiungere questi obiettivi”, ha spiegato Hollein.

Se il mondo culturale anglosassone vede il ‘deaccessioning’ con meno ostilità delle controparti latine (Serge Lasvignes, presidente del Centro Pompidou di Parigi ha espresso “dubbi sulla validità del percorso” avviato in Usa), la Gran Bretagna ha scelto la strada dell’intervento pubblico. Venerdì scorso il governo di Londra ha annunciato lo stanziamento di 400 milioni di sterline (circa 470 milioni di euro) in sussidi al mondo della cultura. I finanziamenti sono solo una parte del ‘Culture Recovery Fund’ da oltre un miliardo e mezzo di sterline che Downing Street ha messo in campo per soccorrere un settore annichilito dalla pandemia.

Tra le 2.700 organizzazioni che riceveranno gli aiuti non ci saranno solo i musei ma anche il festival musicale di Glastonbury, la Royal Shakespeare Company e un gran numero di cinema e teatri indipendenti. Il fondo “ha già aiutato migliaia di organizzazioni culturali a sopravvivere alla maggiore crisi che abbiano mai affrontato”, ha commentato il ministro della Cultura, Oliver Dowden, “ora stiamo al loro fianco mentre si preparano ad accogliere di nuovo il pubblico”. Una riapertura che non arriverà prima del 17 maggio ma, presumibilmente, anticiperà di parecchio l’Europa continentale.

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