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L’Europa stia in guardia, Vance è abile | L’intervento di Stefano Mannoni, professore alla facoltà di Giurisprudenza di Firenze

Un tempo a Washington circolava questa divertente storiella sui vice-presidenti degli Stati Uniti: “c’era una volta una madre che era piombata nella più profonda disperazione perché non aveva saputo più niente dei suoi due figli.

Il primo era partito nel lontano Oriente.

Il secondo era diventato…vicepresidente degli Stati Uniti”.

Tanto per descrivere in due parole la scarsa considerazione in cui era tenuta la seconda carica esecutiva del paese.

Un tempo però.

Perché le vicende presidenziali più recenti hanno dimostrato come la carica – a volte – possa trasformarsi nella investitura di un delfino.

È il caso appunto della designazione del giovane J.D. Vance da parte di Donald Trump.

Vale pertanto la pena di occuparsene, vincendo l’istintiva antipatia politica che suscitano le sue dichiarazioni, così estreme, e a tratti grossolane, da fare apparire il suo mentore Trump un fine statista.

Ma dietro l’evidente opportunismo del fresco convertito alla fede trumpiana, per soddisfare una smisurata ambizione personale, bisogna ammettere che c’è una mente sofisticata.

Come attesta ampiamente il bestseller “Hillbilly Elegy” che lo ha proiettato sulla ribalta della fama nazionale.

E a giusto titolo, perché trasformare la propria biografia in un manifesto elettorale, avvalendosi di un evidente ma improvvisato talento letterario, non è operazione semplice.

Che invece all’autore è riuscita perfettamente: le radici nel povero Kentucky; la migrazione nella rust belt dell’Ohio in piena decadenza industriale; la disintegrazione delle famiglie dei bianchi proletarizzati, in balia di alcol, droga e ogni sorta di abusi domestici.

Gli ingredienti sono tutti riuniti per una narrazione dal forte tratto realista che avvince il lettore tanto per il ritmo dello stile, incalzante, quanto per la descrizione del meteorico riscatto di un giovane che sarebbe stato degno dell’ammirazione di Herbert Spencer, con la sua darwiniana selezione dei migliori.

Da Middletown, Ohio, alla facoltà di legge di Yale, il tempio della selezione dell’intellighenzia wasp, la strada sembra incolmabile.

Eppure a Vance, tirato su dai nonni, in assenza del padre e alla presenza di una madre violenta e alcolizzata, l’impresa è riuscita.

Chapeau! Il quale è talmente sicuro del risultato da trasformarlo in un atto di accusa contro i liberals alla Obama che hanno smaccatamente dimenticato la sorte di tanti americani bianchi vittime della deindustrializzazione.

E qui però il lettore avverte una nota insincera.

I liberals sono certamente colpevoli di ignavia, ma le loro istituzioni, come Yale, non lo sono, visto che hanno ammesso il giovane Vance spesandolo di tutto, sulla scorta di un curriculum in cui campeggiava un modesto college statale e quattro anni di servizio nei marines.

Il punto è che l’acrimonia populista verso il “sistema” è posticcia: il risentimento non produce proposte convincenti se non distruggere il libero-scambio coi dazi, marginalizzare le minoranze, e chiudere gli Stati Uniti in un bieco isolazionismo.

In conclusione: J.D. Vance è abile, occorre riconoscerlo; ma non convince più dei suoi sponsor, tra cui figura, non dimentichiamolo, l’anima nera della Silicon Valley Peter Thiel.

Abbastanza da suggerire potenti contromisure da parte di noi europei in vista della possibile conquista della casa Bianca.

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