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[L’analisi esclusiva] Non è il caso di parlare di debito pubblico. Ecco perché.

Il debito pubblico? Meno se ne parla e meglio è. Soprattutto se, a farlo, è David Sassoli che, come presidente del Parlamento europeo dovrebbe conoscere da vicino la crisi di rigetto che ogni ipotesi di remissione dei debiti determina nelle opinioni pubbliche di mezza Europa. O si vuole che il debito italiano sia il tema centrale delle elezioni di marzo in Olanda della corsa alla successione di Angela Merkel? Ma, a consigliare di riporre il tema nel cassetto, non c’è solo il buon senso diplomatico. Il punto è più semplice: non è il caso di parlare di debito, perché nessuno ne parla e nessuno ne parla perché un problema di debito pubblico italiano, oggi, non c’è e, molto probabilmente, non ci sarà ancora per qualche anno. Una scommessa che si può ragionevolmente fare è che il tema tornerà d’attualità, quando sarà molto meno spinoso di quanto appaia ora.

La premessa da cui partire è che il debito esploso in questo drammatico anno per far fronte all’epidemia non è nelle mani ansiose degli operatori di mercato, ma nelle casseforti della Banca centrale europea (via Banca d’Italia). Il debito Covid di cui si parla è stato, infatti, totalmente assorbito dalle istituzioni europee. Anzi, anche qualcosa di più del debito Covid. Dall’inizio dell’anno, ha calcolato l’Osservatorio di Carlo Cottarelli, la Bce ha acquisito oltre 140 miliardi di euro in titoli italiani. Nel giro di un mese se ne aggiungeranno altri 30-50 miliardi di euro.

In totale, quindi, circa 170-200 miliardi di euro. Più di tutto il disavanzo creato, quest’anno, nel bilancio pubblico dall’affannosa corsa-record a tamponare la crisi. Di fatto, sul mercato ci sono meno titoli italiani di quanti ce ne fossero un anno fa: ha rastrellato tutto la Bce. In totale, nelle casse di Francoforte ci sono ormai oltre 500 miliardi di euro di titoli italiani, un quinto del nostro debito pubblico e tutto quello più recente.

Il fatto che una quota così ampia del debito pubblico italiano sia presso le istituzioni europee e non sparso fra gli operatori del mercato ha due importanti conseguenze.

La prima è che quel debito è gratis. Non dobbiamo temere che un improvviso rialzo dei tassi e la corsa dello spread ci spingano sull’orlo della bancarotta, perché tutti gli interessi sui quei 500 miliardi di euro di titoli rifluiscono alla Banca d’Italia e, da questa, al Tesoro. Lo testimoniano i bilanci della Banca d’Italia: l’ultimo ha visto il trasferimento di circa 10 miliardi di euro di profitti sui titoli alle casse dello Stato.

La seconda è che quell’imponente quota di debito è, di fatto, congelata. Dal 2015, la Bce compra titoli italiani (e spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi ecc.) e, regolarmente, ad ogni scadenza, li ha rinnovati, riacquistandone un ammontare uguale a quello scaduto. E così ha dichiarato di voler fare anche in futuro, fino ad una data imprecisata. Non c’è dunque da temere che Christine Lagarde, presa da smania speculativa, si metta a liquidare sul mercato masse di titoli italiani, scatenando una crisi finanziaria internazionale. Saranno lentamente smaltiti, a partire da una data x, quando questo potrà avvenire senza scossoni.

A togliere il veleno dalla partita debito pubblico, tuttavia, non c’è solo la campagna di acquisti della Bce. Questo debito, oggi, infatti, costa spiccioli. L’ultima asta ha visto collocare, in questi giorni, i Btp a 5 anni a tasso zero (per l’esattezza ad un rendimento dello 0,01 per cento). E quelli decennali al record (verso il basso) dello 0,59 per cento. Lo spread è polverizzato a quota 113. Anche qui, c’è la mano di Francoforte, della sua politica monetaria e dei massicci acquisti sul mercato (la Bce non può comprare in prima battuta, all’emissione). Ma quello che conta è la discesa del costo del debito.

L’apparente paradosso, dunque, è che, mentre il debito esplode, arrivando al 160 per cento del Pil, il suo costo scende.  Nel 2015, prima che Mario Draghi mettesse in azione il bazooka del Quantitative Easing, iniziando a rastrellare titoli pubblici, l’Italia dedicava al pagamento degli interessi sui titoli del Tesoro l’8 per cento della spesa pubblica. Oggi, con un debito schizzato alle stelle, l’onere degli interessi è pari al 7 per cento della spesa pubblica totale. Se, nel 2015, quell’8 per cento non rappresentava un problema – chiede Erik Nielsen, il capo economista di Unicredit – perchè lo sarebbe il 7 per cento di oggi? Il paese dovrebbe essere in grado di gestire quella zavorra, come cinque anni fa.

Nelle carte della Bce, come in quelle di qualsiasi centro studi, questa situazione di tassi bassi e politica monetaria accomodante è destinata a durare ancora a lungo. Non all’infinito, forse. Ma una ripresa che quasi tutti pronosticano, al più tardi, per la seconda metà del prossimo anno (con l’aiuto del vaccino) comincerà ad erodere il peso del debito. E questo avverrà sempre più velocemente, se l’Italia riuscirà a rimettere la sua economia sul binario di uno sviluppo modesto, ma credibile, dell’1-2 per cento l’anno: se il Pil cresce più del costo del debito, oggi così basso, il peso del debito sullo stesso Pil si riduce. E’ la sfida che il Recovery Fund dovrebbe aiutarci a vincere nei prossimi anni. Inutile fasciarsi la testa adesso.

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