Su Repubblica Marta Dassù si occupa del vertice fra Joe Biden e Xi Jinping a San Francisco. Vertice, osserva, che non evoca la nascita di un G-2, un direttorio bipolare sulla testa dell’Europa o della Russia, gli alleati delle due parti. Ma dimostra che i principali rivali del mondo di oggi cercano di contenere i rischi e di gestire la loro competizione. Anche durante la prima guerra fredda, del resto, Stati Uniti ed Unione Sovietica trattavano accordi sul controllo degli armamenti.
In questa seconda sfida globale, le due grandi potenze dell’Atlantico e del Pacifico sono alla ricerca di regole del gioco che permettano di tenere sotto controllo i rischi relativi a Taiwan e di moderare i costi della vera guerra fredda in atto, quella per il predominio tecnologico.
Pesano le difficoltà interne di entrambi. Joe Biden, in un anno elettorale, ha indici di gradimento così bassi da ricordare Jimmy Carter, presidente per un solo mandato. L’economia degli States non va affatto male; ma i sondaggi indicano che la maggioranza degli americani pensa di stare molto peggio di quattro anni fa. Non certo una buona premessa per vincere la sfida elettorale, per un Presidente con il peso negativo del fattore età. E non è chiaro se e quanto aiuterà il dialogo con la Cina, vista come potenziale minaccia (di sicurezza, economica) da gran parte dell’opinione pubblica americana.
Xi Jinping, teorico del “grande Rinascimento del popolo cinese”, si trova invece alle prese con il primo vero stop della crescita economica da quattro decenni a questa parte. Se Deng Xiaoping aveva innescato, proprio con il suo viaggio negli Stati Uniti del 1979, una fase di straordinaria ascesa economica della Cina, Xi Jinping rischia di passare alla storia come il protagonista della fine del miracolo cinese. Non a caso, ha chiesto ai principali imprenditori americani di continuare a investire nel suo Paese, dopo avere parlato per anni dell’ineluttabile declino degli Stati Uniti.
Il nazionalismo di Xi è una rischiosa compensazione delle difficoltà economiche interne. Con le loro conseguenze politiche. La legittimità al potere della dinastia comunista si fonda sul noto scambio: libertà economica ma senza libertà politica. Con una crescita in rallentamento, lo scambio funzionerà sempre meno. La Cina è insomma più debole di quanto in genere si pensi, ha più bisogno dell’America che non viceversa.