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[L’intervento integrale] Giorgio Parisi (Premio Nobel per la Fisica 2021): «La deindustrializzazione sistematica dell’Italia penalizza la ricerca. Rischiamo il terzo mondo»

Giorgio Parisi, Professore emerito della Sapienza Università di Roma e Premio Nobel per la Fisica 2021, ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Accademico all’Università degli studi di Roma La Sapienza. Riportiamo di seguito il suo intervento integrale.

«La scienza ha anche delle conseguenze pratiche, ma non è questo il motivo per cui la facciamo», diceva Richard Feynman, uno dei più grandi fisici del secolo scorso e forse il più simpatico.

Questa frase, insieme con l’imperativo dantesco «Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» riflette molto bene le passioni soggettive degli scienziati. La scienza è un enorme puzzle e ogni pezzo che viene messo nel posto giusto apre la possibilità di collocarne altri. In questo gigantesco mosaico, ogni scienziato aggiunge delle piccole tessere, con la consapevolezza di aver dato il suo contributo, e che, quando il suo nome sarà dimenticato, coloro che verranno dopo si arrampicheranno anche sulle sue spalle per vedere più lontano.

Possiamo fare una vivida metafora dell’impresa scientifica. Alcuni naviganti sbarcano di notte in un’isola sconosciuta e accendono un fuoco sulla spiaggia; incominciano a vedere cosa li circonda. Più legna mettono sul fuoco, più diventa grande la zona ben visibile; ma al di là di questa rimane sempre una regione misteriosa, che viene appena percepita nel buio quasi completo, rotto dalla fioca luce del fuoco lontano, e che diventa sempre più grande all’aumentare del falò.

Più esploriamo l’universo, più scopriamo nuove regioni da esplorare, ogni scoperta ci permette di formulare tantissime nuove domande che precedentemente non eravamo assolutamente in grado di formulare.

Tuttavia tranne nei rari casi in cui lo scienziato era di famiglia agiata e la ricerca era condotta nei lunghi periodi di ozio (per esempio Plinio il Vecchio, Fermat), lo scienziato ha sempre avuto il problema di trovarsi da mangiare e le applicazioni della scienza erano fondamentali per questo scopo. Basta pensare a una delle prime scienze, in ordine di tempo, l’astronomia.

È difficile immaginarsi concretamente adesso che viviamo in città ben illuminate, quale potesse essere nelle civiltà primitive l’enorme prestigio, potere di coloro che controllavano il flusso delle stagioni, il moto degli astri e che sapevano predire le eclissi della luna (per non parlare di quel fenomeno terrificante che sono le eclissi di sole).

Se le motivazioni dei mecenati potevano essere solo culturali o di prestigio sociale, certamente non sfuggiva agli scienziati l’importanza delle applicazioni pratiche.

Anche allo scopo di coordinare la ricerca scientifica nel Seicento-Settecento vengono fondate molte delle accademie che dominano ancora la scena scientifica, l’Accademia dei Lincei nel 1603, la Royal Society nel 1646, l’Académie des Sciences nel 1666, l’American Philosophical Society nel 1743. Questa Accademia è particolarmente interessante: fu fondata da Benjamin Franklin con lo scopo dichiarato di promuovere la conoscenza utile.

Con il passare degli anni la scienza diventa sempre più utile alla società (lo sviluppo economico si basa sul progresso scientifico), ma diventa anche sempre più costosa e richiede impianti e un’organizzazione sempre più complessa.

La seconda guerra mondiale segna i primi vagiti della scienza con basi di massa (la grande scienza): Vannevar Bush coordina gli sforzi bellici di seimila scienziati americani e contemporaneamente cinquantamila persone lavorano alla costruzione delle prime bombe atomiche.

Ai giorni d’oggi il settore ricerca e sviluppo assorbe poco più dell’un per cento in Italia, ma arriva a più del 4 per cento in Corea del Sud (non solo la Corea del Sud ci ha eliminato dai Mondiali del 2002, ma spende tre volte più dell’Italia in ricerca e sviluppo).

La scienza con le sue istituzioni ha bisogno di essere finanziata dalla società alla quale non importa un fico secco se gli scienziati si divertono o meno. Questo punto di vista è stato espresso molto chiaramente dalla delegazione sovietica al Congresso di storia della scienza e della tecnologia tenutosi a Londra nel 1931.

Bucharin (una personalità politica di primo livello, estremamente popolare nell’Urss, che successivamente fu una delle vittime più illustri delle purghe staliniane) scriveva che “l’idea che la scienza sia fine a se stessa è ingenua: essa confonde le passioni soggettive dello scienziato professionista, che lavora in un sistema di divisione del lavoro assai spinto […] con il ruolo sociale oggettivo di questo genere di attività, in quanto attività di importanza pratica”.

Non è pensabile lo sviluppo tecnologico senza un parallelo avanzamento della scienza pura. Come era stato ben evidenziato nell’Ape e l’architetto (1977), la scienza pura non solo fornisce alla scienza applicata le conoscenze necessarie per potersi sviluppare (linguaggi, metafore, quadri concettuali), ma ha anche un ruolo più nascosto e non meno importante. Infatti, le attività scientifiche di base funzionano anche come un gigantesco circuito di collaudo di prodotti tecnologici e di stimolo al consumo di beni ad alta tecnologia avanzata.

Questa profonda integrazione tra scienza e tecnica potrebbe far pensare che la scienza abbia un futuro radioso in una società che diventa sempre più dipendente dalla tecnologia avanzata (i diffusissimi cellulari di adesso arrivano a una capacità di calcolo di centinaia di miliardi di operazioni aritmetiche al secondo, più o meno come i mastodontici supercomputer di venticinque anni fa).

In realtà oggi sembra vero tutto il contrario: ci sono forti tendenze antiscientifiche nella società attuale, il prestigio della scienza e la fiducia in essa stanno diminuendo velocemente.

Insieme a un vorace consumismo tecnologico si diffondono largamente le pratiche astrologiche, omeopatiche e antiscientifiche (vedi per esempio NoVax) e sta per essere riconosciuta da una legge dello stato italiano una pratica francamente stregonesca come l’agricoltura biodinamica, dove piccole quantità di letame vengono fatte maturare dentro le corna di vacche che hanno avuto almeno un figlio (l’indispensabile cornoletame).

Non è facile capire fino a fondo l’origine di questo fenomeno; è possibile che questa sfiducia di massa nella scienza che arriva fino al nostro Parlamento sia dovuta anche ad una certa arroganza degli scienziati che presentano la scienza come sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, anche quando in realtà non lo è affatto.

A volte l’arroganza consiste nel non cercare di far arrivare al pubblico le prove di cui si dispone, ma di chiedere un assenso incondizionato basato sulla fiducia negli esperti.

Proprio il rifiuto di non accettare i propri limiti può indebolire il prestigio degli scienziati che a volte sbandierano un’eccessiva sicurezza che non è autentica, davanti a un’opinione pubblica che in qualche modo ne avverte la parzialità di vedute e i limiti.

A volte cattivi divulgatori presentano i risultati della scienza quasi come una superiore stregoneria le cui motivazioni sono comprensibili solo agli iniziati. In questo modo chi non è scienziato può essere spinto in una posizione irrazionale di fronte a una scienza percepita come magia inaccessibile e quindi a preferire altre speranze irrazionali (tema ripreso in gran dettaglio da Marco d’Eramo nel suo Lo sciamano in elicottero, 1999): se la scienza diventa una pseudomagia, perché non scegliere la magia vera?

Ma forse le difficoltà attuali hanno origini più profonde che devono essere comprese a fondo allo scopo di poterle contrastare.

Stiamo entrando in un periodo di pessimismo sul futuro che ha la sua origine da crisi di varia natura: crisi economica, riscaldamento globale, esaurimento delle risorse, inquinamento.

In molti Paesi si aggiungono l’aumento delle diseguaglianze, il precariato, la disoccupazione, le guerre. Mentre una volta si pensava che il futuro sarebbe stato necessariamente meglio del presente, si è intaccata la fede nel progresso, nelle magnifiche e progressive sorti dell’umana gente: molti temono che le future generazioni staranno peggio di quelle attuali.

E come la scienza aveva il merito del progresso, così adesso la scienza riceve il biasimo del declino (reale o solo percepito non importa).

La scienza è a volte sentita come una cattiva maestra che ci ha portato nella direzione sbagliata e cambiare questa percezione non è facile.

C’è una grande insoddisfazione verso tutti coloro che sono responsabili di questa situazione e gli scienziati non sfuggono a questo biasimo.

Ma se anche al livello planetario la scienza continuerà a svilupparsi e a trascinare la tecnologia, non c’è nessuna garanzia che questo accada anche in un Paese come l’Italia.

La deindustrializzazione sistematica dell’Italia è il filo conduttore della storia italiana dalla tragica morte di Mattei (1961) in poi assieme al sempre più marcato disinteresse della grande industria per la ricerca dopo la fine di esperienze pilota come quella dell’Olivetti.

È ben possibile che i nostri governanti decidano che l’industria e la ricerca italiana debbano avere posto sempre più secondario e che il Paese debba lentamente scivolare verso il terzo mondo.

Se consideriamo anche il lento decadere della scuola pubblica, il disinvestimento dell’impegno finanziario del governo italiano nei beni culturali (basti dire che il restauro del Colosseo è stato fatto con fondi privati) ci rendiamo conto che tutte le attività culturali italiane sono in lento, ma costante, declino.

Bisogna difendere la cultura italiana su tutti i fronti, dobbiamo evitare di perdere la nostra capacità di trasmetterla alle nuove generazioni. Se gli italiani perdono la loro cultura cosa resta del Paese?

Bisogna costituire un fronte comune di tutti gli operatori culturali italiani (dagli insegnanti degli asili alle accademie, dai programmatori ai poeti) per affrontare e risolvere l’attuale emergenza culturale.

La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale. Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Robert Wilson, che nel 1969 di fronte ad un senatore americano che insistentemente chiedeva quali fossero le applicazioni della costruzione dell’acceleratore al Fermilab, vicino Chicago, in particolare se fosse utile militarmente per difendere il paese, gli risponde il suo valore sta nell’amore per la cultura: è come la pittura, la scultura, la poesia, come tutte quelle attività di cui gli americani sono patriotticamente fieri; non serve per difendere il nostro Paese ma fa che valga la pena difendere il nostro Paese.

Per affermare la scienza come cultura, bisogna rendere la popolazione (almeno quella colta) consapevole di cosa è la scienza, di come la scienza e la cultura si intreccino l’una con l’altra, sia nel loro sviluppo storico sia nella pratica dei nostri giorni. Bisogna spiegare in maniera non magica cosa fanno gli scienziati viventi, quali sono le sfide dei nostri giorni.

Non è facile, specialmente per le scienze dure dove la matematica gioca un ruolo essenziale; ma, con un certo sforzo si possono ottenere ottimi risultati.

Ai giorni d’oggi uno dei compiti fondamentali delle università è fornire una riflessione integrata su dove stia andando la scienza, le varie discipline che la compongono, comprese naturalmente quelle umanistiche e sociali.

Bisogna soffermarsi sui rapporti reciproci tra scienza e società, su come il progresso scientifico influenzi, nel bene e nel male, la nostra vita e su come le esigenze della società condizionino lo sviluppo delle tecnologie e in ultima analisi della ricerca scientifica.

Questi rapporti non sono diretti, ma passano attraverso tantissime istituzioni, politiche ed economiche e non ultime quelle di comunicazione, in particolare i mass media.

La cultura influenza ed è influenzata da queste interazioni che vanno ben al di là dei confini delle singole discipline, tutte condizionate dallo Zeitgeist, dallo spirito dell’epoca. Non è facile dipanare tutti questi rapporti nel loro svilupparsi storico e nel loro intersecarsi in quanto servono competenze di natura molto diversa.

Non dobbiamo limitarci alla semplice comprensione dei fenomeni, ma dobbiamo essere protagonisti coscienti di questi processi per poter indicare, sulla base delle conoscenze scientifiche, quali direzioni di sviluppo ritengano le più sagge e, in caso di dubbi, quali siano i vantaggi e svantaggi delle varie soluzioni.

Questo ruolo diventa sempre più importante in periodi di crisi come quello attuale.

La parola crisi è talmente usata che il suo valore è stato svalutato: grandi migrazioni, problemi etici della scienza e della tecnica, pandemie, depauperamento delle risorse naturali e cambiamento climatico, per non parlare delle crisi finanziarie ed economiche con i loro pesanti riflessi su reddito e occupazione.

Siamo di fronte a rapidi cambiamenti e gli schemi mentali sviluppati nel passato, quando l’intervento umano aveva piccoli effetti sull’ambiente, devono essere aggiornati adesso che la nostra impronta ecologica sul pianeta diventa sempre più ampia.

Con la loro grande autorevolezza le università possono essere protagoniste di riflessioni da comunicare a un pubblico vasto: devono essere capaci di influenzare la società e le istituzioni anche in presenza di interessi settoriali che possono spingere nella direzione opposta.

Ma questo interesse nella scienza ha avuto una ricaduta insospettata.

Molte persone sono rimaste sconcertate dal vedere scienziati illustri accapigliarsi con la stessa veemenza che potrebbero avere esponenti politici di partiti diversi. Questo stupore è dovuto anche a una incomprensione del meccanismo con cui si forma il consenso scientifico.

Quando si verifica un fatto nuovo, scienziati diversi propongono interpretazioni diverse.

Procedendo lentamente, provando e riprovando come diceva il grande linceo Galileo Galilei, aumentando le conoscenze con nuovi dati, con nuovi esperimenti, si forma lentamente un consenso attorno a una delle interpretazioni proposte.

In certi casi estremi è stato un procedimento molto lento: Max Planck ha scritto che le nuove idee si affermano non perché gli oppositori si convincono, ma perché gli oppositori muoiono e lasciano lo spazio ai sostenitori delle nuove idee. Non deve sorprendere quindi che di fronte a un virus nuovo e a una situazione in cui i dati giungevano intermittenti e incompleti, gli esperti del settore si siano trovati talvolta in disaccordo, specie sui comportamenti da adottare.

In un tempo in cui la scienza televisiva sembra indecisa, con grande scandalo del pubblico, il nostro ruolo diventa sempre più importante sia per arrivare il più velocemente possibile a un consenso nella comunità scientifica, sia per diffondere al pubblico i risultati su cui si è raggiunto il consenso.

Abbiamo il dovere di promuovere una cultura basata sui fatti e impedire che si diffonda una pseudoscienza che possa indurre a scelte sbagliate.

Non basta capire, trovare la strada, ma bisogna anche riuscire a comunicare, a spiegare non solo i risultati ma anche la metodologia seguita, per poter essere convincenti in maniera duratura.

Non è facile farlo, ma è possibile farlo.

Basta guardarsi intorno per capire che quello che si fa non basta.

Bisogna fare di più, molto di più, e se non lo faremo, non potremo sfuggire alle nostre responsabilità.

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