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Ecco la strategia dei “petrostati” alle conferenze sul clima | Lo scenario

Siamo tutti d’accordo: il riscaldamento globale ci sta minacciando, le emissioni di CO2 di origine antropica sono la causa principale e per evitare la catastrofe bisogna ridurle.

Ma bisogna essere anche d’accordo sul ‘come’.

Per questo sono nate le Conferenze annuali delle Parti sul clima.

Alle Cop partecipano 197 Paesi, più la Ue, che hanno sottoscritto la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) firmata a Rio De Janeiro nel 1992, al Summit della Terra.

La prima Cop, scrive il Corriere della Sera, si è tenuta nel 1995 a Berlino.

A organizzarla la Germania con una giovane Angela Merkel, allora ministro dell’Ambiente del governo Kohl, che faceva gli onori di casa.

Dopo un estenuante negoziato durato una settimana, Merkel riesce a strappare un accordo in cui i firmatari accettano di incontrarsi ogni anno per tenere sotto controllo il riscaldamento globale.

Nel 1997 in Giappone, viene siglato il protocollo di Kyoto in cui i Paesi decidono per la prima volta di ridurre del 5,2% le emissioni globali rispetto ai livelli del 1990.

Gli Stati Uniti, al tempo maggiore inquinatore mondiale, non aderiscono.

Seguono anni di conferenze fallimentari.

Nel 2015, alla Cop21 di Parigi, finalmente l’accordo più incisivo: contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale attraverso piani nazionali volontari, e neutralità carbonica per il 2050.

Con la Cop26 nel 2021 a Glasgow si è deciso lo stop alla deforestazione entro il 2030, e infine a Dubai (Cop28) “l’allontanamento” dai combustibili fossili entro il 2050.

Una formula ambigua, partorita dopo un lungo tira e molla per ottenere il consenso di tutti.

L’ultima Cop negli Emirati Arabi Uniti è stata la più criticata della storia.

Molti si sono chiesti: perché si è scelto un “petrostato” per organizzare la più importante conferenza sul clima?

L’assegnazione della Cop ogni anno ruota tra i 5 gruppi regionali in cui sono divisi i Paesi dell’Onu: Africa, America Latina e Caraibi, Asia-Pacifico, Europa Orientale, Europa Occidentale e ‘Altri’.

In quest’ultimo blocco ci sono anche Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Il gruppo di turno si consulta per stabilire se c’è un Paese che intende candidarsi, e se nessuno in quel blocco si oppone viene inviata una manifestazione di interesse all’Unfccc.

Il segretariato verifica solo che ci siano gli elementi logistici e finanziari per ospitare la conferenza e poi dà il via libera.

Nel 2023 era il turno del gruppo Asia-Pacifico.

Gli Emirati Arabi si sono candidati, nessun Paese del blocco ha avuto da ridire e così la Cop28 è stata assegnata al sesto esportatore mondiale di petrolio.

È il Paese ospitante che di solito indica chi dovrà presiedere e indirizzare i lavori della conferenza.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno scelto come presidente Sultan Ahmed Al Jaber, ministro dell’Industria e amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia petrolifera nazionale.

La Bbc ha pubblicato una serie di documenti che accusano Al Jaber di aver approfittato dell’evento per negoziare accordi privati sulla vendita di petrolio durante le riunioni preparatorie della rassegna.

A Dubai i lobbisti delle aziende di combustibili fossili accreditati erano un esercito: 2.456.

Solo due anni prima a Glasgow erano 503.

Nel 2024 l’organizzazione della Cop spetta al gruppo regionale dell’Europa Orientale, costituito da 23 Paesi.

Si è candidata per prima la Bulgaria, ma Putin ha imposto il veto contro tutti i Paesi della Ue (causa guerra in Ucraina) e la candidatura è stata ritirata.

Alla fine, si è fatto avanti l’Azerbaigian.

Nonostante nel gruppo sia presente anche l’Armenia, con la quale l’Azerbaigian è in guerra da 30 anni per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, l’ex repubblica sovietica è riuscita a spuntarla.

L’Azerbaigian, il cui Pil dipende per il 50% dall’esportazione di petrolio e gas, ha annunciato che il presidente della Cop29 sarà Mukhtar Babayev, attuale ministro dell’Ambiente ed ex dirigente della Socar, società produttrice di petrolio e gas di proprietà statale.

Il Paese non prevede al momento alcun allontanamento dai fossili, ma un aumento di un terzo della produzione di gas entro il 2033.

I costi organizzativi della conferenza, inclusi quelli relativi alla sicurezza, sono a carico del Paese ospitante.

La spesa per lo sfarzo decisamente poco sostenibile di Dubai non è nota, mentre si conosce quello che ha sborsato la Francia nel 2015: 187 milioni di euro, ma è riuscita a recuperarne il 20% attraverso gli sponsor, e altri 100 milioni dall’arrivo di migliaia di partecipanti e dall’attività dei privati.

Strada facendo la COP è via via diventata sempre più simile all’Esposizione universale, e qualcuno l’ha anche ribattezzata ‘la Davos verde’ per la presenza di miliardari e star dello spettacolo che sbarcano dai loro jet ultra-inquinanti.

Un contesto dove la lobby petrolifera sa muoversi con grande abilità.

Se fino a qualche anno fa finanziava a suon di miliardi enti no-profit e organizzazioni pseudo-scientifiche per diffondere fake news sul riscaldamento climatico, ora punta tutte le sue carte sulle nuove tecnologie per catturare le emissioni.

Secondo Greenpeace finora questi strumenti hanno dato risultati deludenti e comunque possono solo affiancare, non sostituire il processo di riduzione delle emissioni di CO2.

Infatti, nonostante gli impegni presi, i Paesi petroliferi più che investire su nuove tecnologie non mollano la presa.

L’ultimo rapporto del ‘Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente’ è molto chiaro: la maggior parte dei Paesi esportatori, tra cui Russia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Stati Uniti e Canada, pianificano di aumentare la produzione nel prossimo decennio.

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