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Dopo sette anni di trattative, Ue e Cina sono a un passo dall’accordo bilaterale sugli investimenti

Dopo sette anni di trattative, Ue e Cina sono ormai a un passo dall’accordo bilaterale sugli investimenti, noto anche come Comprehensive Agreement on Investment. La sua importanza per le aziende italiane non andrebbe sottovalutata. A fine 2019, erano poco più di 2.000 le aziende italiane presenti in Cina, con un totale di stock di investimenti che alcuni stimano in circa 10 miliardi di euro. Pochi, rispetto agli 80 miliardi della Germania, e probabilmente sottostimati, perché le statistiche fanno fatica a tracciare flussi che passano tramite paesi terzi, ma comunque una base di partenza.

Dalla Cina, secondo le stime, verrà il 30% della crescita globale nei prossimi anni e nel 2025 sarà il mercato di consumo più importante. Oltre che un interessante mercato per l’export, resta anche importante per investimenti diretti che, come hanno dimostrato Germania e Francia, tirano l’export.

La Cina resta però un Paese che pone limitazioni all’ingresso di investimenti esteri in alcuni settori, anche se la lista di questi è stata più che dimezzata rispetto a solo tre-quattro anni fa. Una volta nel Paese, inoltre, l’azienda straniera può essere ostacolata, come nel settore finanziario, da requisiti per licenze o certificazioni diversi da quelli che si applicano alle aziende cinesi e deve fronteggiare, come le aziende private cinesi, la concorrenza di imprese pubbliche che ricevono sussidi diretti o indiretti dallo Stato.

Dall’altro lato invece, le aziende cinesi hanno incontrato storicamente pochi ostacoli in Europa, che rimane uno dei continenti più aperti agli investimenti stranieri, anche se nell’ultimo anno le cose sono un po’ cambiate in Italia e Spagna. L’accordo tra Ue e Cina dovrebbe sostituire e superare i vari accordi bilaterali esistenti coi singoli Stati membri, che non si occupano dell’accesso al mercato, garantendo maggiore reciprocità e riducendo anche l’impatto negativo di quelle distorsioni dovute al ruolo delle aziende di Stato cinesi.

I negoziati sono andati a passo molto ridotto per i primi cinque anni, ma hanno subito un’accelerazione dal 2018 in poi, con una Cina chiaramente determinata a chiudere l’accordo entro la fine del 2020 e una Ue che, sotto presidenza tedesca fino al 31 dicembre, vorrebbe raggiungere lo stesso scopo. I settori più interessati dall’accordo sarebbero quello dei veicoli elettrici, delle rinnovabili, delle telecomunicazioni, della finanza e della sanità. Settore, quest’ultimo, in cui la Cina avrà bisogno di ingenti investimenti nei prossimi dieci anni e in cui l’Italia ha dei player d’eccellenza.

Anche sui sussidi alle aziende di Stato sono stati fatti progressi, con un impegno cinese a renderli trasparenti e misurati. In cambio, l’Europa aprirebbe maggiormente agli investimenti cinesi nel settore energetico (alle aziende cinesi interessano molto le rinnovabili). Fino a pochi giorni fa restavano dei punti aperti, per esempio riguardo il meccanismo di risoluzione delle controversie. Bisogna vedere se e come sono stati risolti.

Di recente, il Parlamento Europeo aveva tracciato una specie di linea rossa, chiedendo l’inserimento nell’accordo di un impegno per la Cina a sottoscrivere le due convenzioni Ilo contro i lavori forzati. Un ovvio riferimento alla questione di alcune aziende basate nel Xinjiang di cui la stampa europea si è occupata ripetutamente negli ultimi mesi, negata invece dalla Cina.

Detto questo, è sempre possibile trovare dei compromessi accettabili anche all’ultimo minuto. Certo è che in futuro ci sarà bisogno di chiarezza su cosa l’Europa cerca veramente dai suoi partner commerciali. Se la linea è quella suggerita stavolta dal Parlamento Europeo essa dovrà applicarsi, rigorosamente, a ciascuno di loro.

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