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Nella transizione verde non basta investire nel nuovo, ma occorre rendere sostenibile anche il vecchio | L’intervento di Claudio Scardovi – senior partner Deloitte

Nei prossimi anni oltre 50 mila aziende della Comunità Europea (e le multinazionali che in essa operano) dovranno analizzare e comunicare il loro impatto sull’ambiente, con un primo set di imprese (quelle quotate, circa 11 mila) già previsto per gennaio 2024, con estensioni alle non quotate e alle pmi nel 2025 e 2026.

Queste aziende saranno chiamate a evidenziare l’impatto del cambiamento climatico sui loro business (in termini di transition risk) e delle loro operation (in termini di carbon footprint sull’ambiente), secondo un concetto di doppia materialità.

Il processo legislativo appare ormai irreversibile, dopo l’estremo tentativo (fallito) del 17 ottobre scorso di alcuni policy-maker di rallentare o annullare l’adozione di queste regole di trasparenza e reporting.

Se da una parte il tema dell’impatto ambientale sulla sostenibilità e vivibilità dell’ecosistema di riferimento sviluppato dalle civiltà umane industriali e post-industriali costituisce il perno strategico e centrale di questi e altri (per esempio le nuove leggi sul green housing) cambiamenti legislativi in atto, rimane a mio avviso scarsamente affrontato il tema degli impatti economici e finanziari di questi cambiamenti strutturali, inevitabili ma ancora incerti sul “come?”, “quando?” e “con quali conseguenze?”.

Il sistema finanziario europeo deve infatti, in questo ambito, proporre soluzioni proattive, robuste ed efficaci rispetto ai rischi di implementazione di un tale radicale cambiamento – un fallimento sistemico a livello bancario conseguente all’introduzione di nuove regole sarebbe di scarso aiuto alla transizione, favorendo piuttosto gli argomenti di chi vi si oppone.

Discussioni e analisi ai livelli più alti della Commissione e della Bce sono già da tempo iniziate, con riferimento al possibile rischio sistemico derivante dalla quota di crediti bancari ancora esistente (e anzi in crescita), a finanziamento di molti, futuri stranded asset (per esempio i finanziamenti a controparti attive nel settore oil & gas).

Alcuni position paper pubblicati da think tank associate alle autorità europee hanno ad esempio avocato la creazione di Climate Bad Banks pubbliche, o misto pubblico-private, per lo smaltimento di questi crediti che, sia pure oggi ancora finanziariamente performanti, già non lo sono più da un punto di vista ambientale e potrebbero diventarle (npl anche da un punto di vista economico-finanziario) nel medio-lungo periodo.

Come per gli npl creatisi dopo la crisi finanziaria del 2008, anche per questi enpl (environmentally non performing loans) potrebbe crearsi, nel lungo periodo, un mercato di piattaforme di work-out specializzate ed uno secondario per la cartolarizzazione, ristrutturazione e vendita di questi crediti a finanziamento di stranded asset.

Un mercato idealmente regolamentato e con controparti dedicate alla riconversione ottimale o decommissioning (liquidazione) degli attivi inquinanti sottostanti – e per evitare il facile arbitraggio di speculatori anti Esg.

Come per gli npl, questo processo potrebbe essere lungo e doloroso, implicando perdite di valore economico, sociale e ambientale, e la possibile destabilizzazione di intermediari finanziari che richiederebbe l’intervento in ultima istanza di Stati e banca centrale (finanziati con tasse o debito pubblico ed inflazione).

Per le grandi banche europee, anche traendo insegnamenti dall’esperienza relativa agli npl degli ultimi 15 anni, esiste tuttavia una possibile via virtuosa per gestire al meglio la sfida degli stranded asset, collegata ai crediti a imprese e a real asset inquinanti, che verranno messi a nudo (e poi tassati o resi fuori norma e quindi inagibili) a partire dal Gennaio 2024.

Sulla base del transition risk di queste controparti (che ricade ovviamente sulle banche creditrici), nuovi piani strategici di transizione dovrebbero essere considerati per interi settori e migliaia di controparti finanziate.

A valle di questa comprensione del “cosa fare, come ed entro quando”, una nuova finanza si renderebbe certamente necessaria, per realizzare gli investimenti richiesti per la conversione (o liquidazione) di questi asset, a difesa del valore del credito e anche degli azionisti degli stessi e di tutti gli altri stakeholder coinvolti – e con un ritorno atteso in termini di sostenibilità totale (economica, sociale e ambientale) molto importante.

L’esempio del fondo promosso da Bill Gates (Breakthrough Energy Ventures), che persegue investimenti in aziende e tecnologie che indirizzano il problema del riscaldamento climatico è al contempo illuminante e limitante.

Oltre a investire nel nuovo, che ci permetterà di vivere al meglio e con maggiore sostenibilità in futuro, altri fondi a impatto, idealmente promossi proprio dal sistema bancario europeo, dovrebbero indirizzare, con un approccio da operating partner, il salvataggio e la rimessa a sostenibilità del vecchio – con ottimi argomenti a difesa degli attacchi dei detrattori di tutto ciò che è Esg e sostenibilità.

E con un ritorno economico, sociale e ambientale più immediato e tangibile, fino all’arrivo del nuovo.

Nel lungo periodo, infatti, quando nuove tecnologie breakthrough saranno disponibili – ci ricorda John Maynard Keynes – potremmo già essere tutti morti.

Sta a noi oggi fare le scelte giuste per evitarlo.

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