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L’Unione europea che uscirà dal tunnel dell’epidemia sarà molto diversa da quella che ci è entrata

La partita comincia domani. In agenda c’è la prima videoconferenza dei ministri dell’Economia della Ue, da quando Ursula von der Leyen ha presentato la proposta della Commissione per il #NextGenerationEu, il nome molto “social” che è stato scelto per il piano di ripresa europea post-epidemia.

Sul tavolo, un esame complessivo delle esigenze dei diversi paesi Ue, seguito dal confronto sui criteri per la raccolta di fondi e la loro distribuzione, tempi compresi. Una discussione anche molto tecnica, visto che c’è da navigare una materia complicata come il bilancio comunitario, ma le scelte fondamentali saranno rinviate alla settimana successiva, quando è in programma il summit dei capi di Stato e di governo. E a Bruxelles si dà per scontato che, per arrivare a capo della questione, di vertici ne serviranno forse un altro paio, probabilmente a luglio.

Quanti soldi saranno distribuiti sotto forma di prestiti e quanti come sovvenzioni a fondo perduto? La Commissione propone 500 miliardi di euro come sovvenzioni e 250 come prestiti, ma i paesi più riluttanti all’impegno (Olanda, Austria, Svezia, Danimarca) vorrebbero alzare la quota dei prestiti. Che effetti avrà l’esborso sui soldi che il bilancio Ue abitualmente distribuisce ai paesi membri? Molti paesi temono di veder decurtati gli aiuti che ricevono ogni anno da Bruxelles. E, alla fine, gli investitori che avranno sottoscritto i titoli per 750 miliardi di euro che la Ue si prepara ad emettere per finanziare il NextGeneration saranno rimborsati da chi e come?

All’inizio, nessuno tira fuori un euro, perché la Ue può fornire a garanzia il proprio bilancio. E così avanti fino al 2028, visto che solo allora comincerà il rimborso degli investitori. Ma, a quel punto, bisognerà decidere se i 750 miliardi verranno trovati, riducendo in misura equivalente le risorse disponibili per tutti gli altri compiti sul bilancio. Oppure, aumentando i versamenti dei singoli paesi sul bilancio. Oppure, dotando la Ue di introiti, ovvero tasse, propri.

In realtà, tutti questi problemi aperti nascondono una svolta storica, che è già avvenuta e da cui sembra assai difficile tornare indietro, quali siano le scelte che verranno compiute sui singoli punti. L’Unione europea che uscirà dal tunnel dell’epidemia sarà molto diversa da quella che ci è entrata. Tutto, nei piani delle istituzioni europee per fronteggiare il virus, è temporaneo e dichiaratamente un’eccezione alla regola: la sospensione dei paletti di Maastricht, le sovvenzioni al posto dei prestiti, la durata del Fondo e dell’indebitamento Ue, il bazooka della Bce a difesa, sui mercati, dei debiti dei singoli paesi. Al massimo entro il 2024, ogni cosa dovrebbe tornare come era fino allo scorso Natale.

Ma, nella storia delle istituzioni, i precedenti che vengono creati innescano una deriva sostanzialmente irresistibile. Soprattutto quando, a creare i precedenti di queste settimane è il massimo protagonista dell’Europa versione pre-virus. E’ Berlino, infatti, che sta seppellendo, in prima persona, quei comandamenti dell’austerità che incarnavano, fino a ieri, l’ideologia europea. Ecco i paletti che disegnano la mappa dell’Europa che si intravede.

LA CONVERSIONE DI ANGELA

Prima la rinuncia allo “Schwarze Null” al deficit zero nel bilancio pubblico, poi un megapiano di stimolo dell’economia. La svolta destinata, forse, ad esercitare la maggiore influenza sull’economia europea dei prossimi anni, è avvenuta a Berlino e riguarda, in prima battuta, la sola economia tedesca. Da anni, le grandi istituzioni economiche internazionali – a cominciare da Fmi e Ocse – e i principali interlocutori commerciali (già ai tempi di Obama) chiedevano alla Germania di rovesciare una politica economica, tutta centrata sul risparmio nazionale e il turbo alle esportazioni, per favorire, invece, l’aumento dei consumi e della domanda interna, che faccia da traino alle esportazioni e alla crescita degli altri paesi europei. Lo stimolo fornito dal governo tedesco all’economia dovrebbe alimentare indirettamente, nel prossimo futuro, anche le altre economie.

IL BAZOOKA DI CHRISTINE

La differenza fra la Bce di Mario Draghi e quella di Christine Lagarde non è soltanto nel volume di fuoco che la banca centrale europea mette a disposizione della politica monetaria dell’eurozona, che l’italiano era costretto (suo malgrado, certamente) a calcolare in centinaia di miliardi di euro e la francese conta, invece, in migliaia. Il principio resta quello indicato da Draghi: consentire la trasmissione delle decisioni di politica monetaria di Francoforte ai quattro angoli dell’eurozona. Fuori dal gergo: impedire che un aumento dello spread fra titoli italiani e tedeschi si traduca nel fatto che, in Italia, vigano tassi di interesse troppo lontani da quelli che la Bce ritiene opportuni per l’intera eurozona. Ma ora Francoforte rastrella titoli sui mercati, senza badare né al vincolo di non detenere più di un terzo dei titoli di un paese né all’altro vincolo del peso relativo di quella economia rispetto al totale dell’economia europea. Nella crisi, insomma – stampando, nei fatti, moneta per sventare il collasso delle finanze nazionali – la Bce si ritrova (finalmente, secondo molti) ad agire come una normale banca centrale, la Fed o la Banca del Giappone.

IL TERRITORIO DI URSULA

Uno snodo cruciale della nuova politica europea è il ruolo che si è ritagliata la Commissione di Bruxelles. Visto che i fondi per il NextGeneration nascono dal bilancio europeo, sarà la Commissione in prima persona a gestire la distribuzione e l’utilizzo dei finanziamenti, cominciando dal giudizio sui piani di riforma e rilancio che saranno presentati dai singoli governi. Magari pesa il fatto che Ursula von der Leyen sia un ex ministro tedesco, ma la decisione non era scontata. Il predecessore, in materia di aiuti ai paesi, è il Mes, che è un organismo intergovernativo, con cui la Commissione interagisce ma che non guida. Qui, invece, lo sforzo largamente più ambizioso mai intrapreso di politica economica, industriale, settoriale a livello europeo viene affidato alla Commissione, che è una bestia, per così dire, tutta diversa dal Mes: è un organismo sovranazionale, dove i commissari rispondono alla Ue e non ai propri governi, nominato, nei fatti, dal Parlamento di Strasburgo e, in linea di principio, responsabile di fronte all’elettorato europeo e non ai suoi governi.

LA TRAPPOLA DEL NO AGLI EUROBOND

Questo ruolo potenziato della Commissione è figlio della scelta di chiudersi la strada degli eurobond – sia pure sotto la formula una tantum dei coronabond – compiuta dai paesi nordici. I titoli che verranno emessi per finanziare il NextGeneration non prevedono la responsabilità congiunta e solidale dei diversi membri della Ue (per cui ognuno è responsabile dell’intero debito con i sottoscrittori, anche per conto di tutti gli altri, ove nessun altro si dichiarasse pronto a pagare). Tuttavia, visto che lo strumento scelto è il bilancio dell’Unione, a cui tutti contribuiscono, la differenza è sottile. Ma comporta in ogni caso una cessione di potere alla Commissione.

LA SUPERCOMMISSIONE

In realtà, a leggere le proposte illustrate dalla von der Leyen, questa cessione di potere alla Commissione potrebbe risultare molto più ampia e, fin d’ora, permanente. Per arrivarci, Ursula e soci contano sull’avarizia di breve respiro dei governi. Il punto è il pagamento degli interessi e rimborso dei titoli emessi a nome di NextGeneration. Chi paga, sia pure fra un bel po’ di anni? Se tocca pompare risorse dal bilancio comunitario, le possibilità sono due. O si aumentano i contributi che oggi forniscono i singoli governi. O si riducono le disponibilità del bilancio per i programmi tradizionali (la politica agricola, i piani regionali di sviluppo). Ma ce n’è una terza ed è la preferita della Commissione: dotare Bruxelles di risorse proprie, concedendole la possibilità di imporre tasse. L’idea sarebbe di assicurarsi un flusso di entrate pari a 15-20 miliardi di euro l’anno.

Fra le ipotesi sul tavolo: una tassa sulle grandi aziende internazionali, a titolo di accesso al mercato unico europeo; una tassa sui giganti del digitale, da Facebook a Google; una tassa sui rifiuti di plastica; una tariffa doganale sulle importazioni, dentro la Ue, da paesi che non applicano vincoli alle emissioni di anidride carbonica, come quelli che debbono rispettare le imprese europee. I governi nazionali non hanno mai voluto concedere a Bruxelles la possibilità di tassare i propri cittadini. Sarebbe un’altra svolta storica.

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