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[L’Analisi Esclusiva] Super Mario Draghi e le 5 riforme da fare subito. Per non finire come Monti

In politica non esistono le ricette-miracolo. A meno che non si tratti di Mario Draghi, naturalmente. L’ex presidente della Bce non è solo la miglior risorsa di cui disponga il paese, ma è una star a livello mondiale. Sarebbe una grande risorsa dovunque: il suo soprannome internazionale è SuperMario, in omaggio al protagonista più o meno invincibile di uno dei primi videogiochi di successo (ai fini di future metafore, nel gioco, SuperMario è spesso affiancato dal fratello Luigi e da altri sodali, i SuperMario Brothers).

Un po’ come se in squadra arrivasse Lionel Messi. Con Messi, però, sono garantite belle giocate, non necessariamente la vittoria. E, a volte, non è Messi la carta giusta per vincere. Insomma, SuperMario fa miracoli, ma non è detto che qualsiasi miracolo sia alla sua portata. In particolare, le sfide più importanti che ha di fronte sono per lui nuove ed estranee alla sua pur lunga e brillante esperienza.

Il raffronto immediato è con il più recente governo istituzionale: l’esperienza di Mario Monti a Palazzo Chigi, in uno dei momenti più bui della recente storia italiana. Le differenze sono però significative, importanti e, tutto sommato, a favore di Draghi. Per quanto conosciuto ed influente, Monti, affermatosi nel mondo universitario, veniva paracadutato dall’esterno nel Palazzo della politica italiana. In quel Palazzo, Draghi c’è cresciuto. Uno che è stato direttore generale del Tesoro nei tempestosi anni ’90 dell’austerità “lacrime e sangue”, della grande ondata di privatizzazioni, della rincorsa all’euro, poi governatore della Banca d’Italia fra gli scossoni dell’ultimo Berlusconi riti e vicoli ciechi della politica italiana li conosce bene dal di dentro: “incidenti di percorso” sono improbabili.

Allo stesso tempo, Monti, nei momenti cruciali, poteva far valere nelle decisioni l’urgenza e la drammaticità della situazione, in mesi in cui debito e crisi finanziaria stavano affondando il paese. Oggi, per quanto pressante, la situazione non è così disperata. Draghi, tuttavia, ha un peso specifico, un’autorevolezza riconosciuta, una credibilità, anche a livello internazionale che gli consentono di fare a meno della carta della disperazione: dirgli no sarà difficile comunque.

Questa differenza di peso politico può rivelarsi determinante. Vedremo se e quale governo Draghi sarà in grado di formare. Ma, nei governi istituzionali, allargati a forze politiche di orientamento diverso ed opposto, il primo rischio è che, per via dei veti incrociati, non si decida nulla. Oppure che, per accontentare tutti, si decida troppo, compiendo scelte contradditorie.  SuperMario, invece, ha, probabilmente, il quid che ci vuole per tenere saldo il timone e trascinarsi dietro tutti in una direzione precisa.

Quale, esattamente? Il problema, per Draghi, è che le emergenze immediate che il nuovo governo avrà di fronte, contrariamente alla retorica di questi giorni, più che grande capacità strategica e intuizione visionaria richiedono consumata esperienza amministrativa e minuta capacità manageriale.

La prima emergenza è, infatti, l’epidemia. Priorità, dunque, le vaccinazioni. Qui, non è che ci sia un gran che da inventare. Si tratta di mettere in piedi, a tempo record, personale e strutture di distribuzione e realizzazione del piano vaccini, precettando stadi e veterinari, alla bisogna, se ospedali e medici non bastassero. Un compito, più che da Grande Generale, da Grande Furiere.

Un po’ paradossalmente, non è molto diversa anche l’altra emergenza: il lancio del Recovery Plan. Anche qui, nonostante il dibattito di questi giorni, il vero problema non è di “anima” o “visione”. Un singolo progetto può essere migliore di un altro, una scelta più urgente o più efficace. Ma i terreni su cui intervenire (digitale, innovazione, ecologia, parità di genere) sono noti e codificati, non c’è da fare salti di fantasia. La vera sfida del Recovery Plan è effettuare davvero gli interventi previsti, nei tempi previsti. Sbottigliare i progetti, azzerare vincoli e veti burocratici, turboaccelerare le pratiche, parametrare risultati e obiettivi. Insomma, spendere concretamente i 200 e passa miliardi di euro e entro il 2026, come vuole l’Europa.

Un compito, più che da Grande Generale, da Grande Ragioniere.

Un governo coeso ed efficiente, non paralizzato all’infinito da veti e rivalità interne come il Conte2, può raggiungere questi risultati, ma gli snodi decisivi sono fuori e lontano da Palazzo Chigi e dall’influenza diretta di Draghi. Tutto qui, allora, quello che c’è da aspettarsi dal governo di SuperMario? No. Ma, guardando più lontano, l’ipoteca è il tempo.

L’Italia ha, infatti, bisogno di cinque grandi riforme, in buona misura agganciabili ai soldi del Recovery Plan. Queste riforme sono: la riforma delle pensioni, superando scaloni e quota 100; la riforma del fisco, a soccorso delle classi medie; la riforma della pubblica amministrazione, da rendere moderna, rapida, efficiente; la riforma della giustizia, idem; la riforma dei rapporti Stato-Regioni che l’emergenza Covid ha dimostrato oggi insostenibili nella forma attuale. Sono riforme epocali. Ne basterebbe una per qualificare un governo, come è avvenuto per la riforma sanitaria o quella fiscale degli anni ’70. Farle sarebbe difficile anche per un governo  uscito stravincente dalle elezioni. Inoltre, ognuna di esse richiede un percorso pluriennale di attuazione. Sembrerebbe di essere al di fuori dall’orizzonte posto al governo che Draghi sta tentando di formare.

Però, sono queste le situazioni in cui i campioni alla Messi dimostrano la loro stoffa. I grandi giocatori, diceva Osvaldo Soriano in un indimenticato racconto calcistico, sono quelli che mettono il pallone negli spazi giusti. I fuoriclasse sono quelli che creano spazi dove sembrava che non ce ne fossero.

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